giovedì 23 giugno 2011

Provaci ancora, Sam. Herbert Ross. 1972

Io amo la pioggia: sciacqua le memorie dal marciapiede della vita.

Quando ieri pomeriggio ho deciso di rivedere questo film, ho subito pensato che se Woody Allen decidesse di recitare di nuovo in uno dei suoi film, noi non avremo più la sua voce italiana. Oreste Lionello non c'è più e ascoltare Allen non sarà mai più lo stesso, con Scoop abbiamo perso Woody.
La trama di questo film, uno dei migliori a mio avviso, che precede i suoi capolavori più celebri, è semplice ma efficace e ricca di spunti: Allan Felix (Woody Allen)è un critico cinematografico che viene mollato dalla moglie Nancy:"Voglio vivere! Voglio girare l'Europa in motocicletta! Io e te si va, al massimo, al cinema." "Mi ci mandano. Lavoro per una rivista di cinema!"
Dick e Linda sono i suoi migliori amici si prodigano per lui e gli presentano una serie di donne, ma Allan, timido e molto impacciato fallisce ad ogni incontro.
Linda però non si arrende, non demorde, non lo lascia solo e inizialmente solo per paura che cada in depressione.Dick è sempre in viaggio per lavoro, Allan ha l'animo più sensibile e Linda ne rimane attratta...
Presente fin dall'inizio un forte parallelismo con Casablanca, ed in particolare con Humphrey Bogart, che come una sorta di angelo protettore ogni tanto irrompe sulla scena per consigliarlo.
ALLAN: "Non avrei mai potuto picchiarla, io, Nancy. Non c'era questo tipo di rapporto, fra di noi."
BOGART: "Rapporto? Dov'è che l'hai imparata, questa parola? Da uno strizzacervelli di Park Avenue?"
ALLAN: "Mica sono come te, io. Alla fine di Casablanca, quando perdesti Ingrid Bergman, non eri distrutto?"
BOGART: "Roba da niente. Un whisky e soda, e via."
ALLAN: "Io, vedi, non bevo. Il mio fisico non tollera l'alcool."

Infatti il film si apre con Allan Felix quasi in trance davanti ad uno schermo di cinema: guarda per la centesima volta ma sempre con trasporto e passione Casablanca, proprio mentre sta dicendo addio ad Ingrid Bergman nell'aeroporto fumoso in una scena che tutti noi conosciamo. I punti di contatto e le citazioni della storica pellicola saranno sempre presenti, soprattutto nella parte finale.
Nella versione inglese la frase finale sarà proprio Play it again, Sam, da cui il titolo (azzeccato forse, ma fa perdere il senso della citazione), cioè suonala ancora, Sam, citando ciò che Ingrid Bergman dice al pianista di colore del Rick's Cafè. Tutto stupendo!

Sono riuscita nell'intento di spingervi a rivederlo? Fatelo!

giovedì 16 giugno 2011

Ferro 3. La casa vuota di Kim Ki-Duk. 2004

"Siamo tutti case vuote
e aspettiamo qualcuno che apra la porta e ci renda liberi.
Un giorno il mio desiderio si avvera.
Un uomo arriva come un fantasma e mi libera dalla mia prigionia.
E io lo seguo, senza dubbi, senza riserve...
Finché incontro il mio nuovo destino."


Ferro 3 è una mazza da golf, sia simbolo del film e sia strumento dalle molteplici funzioni e chiavi di lettura della pellicola come l' amore, la morte, la rabbia, la libertà e la fuga. Anche se mai come in questo caso, il film andrebbe sentito, assaporato e non letto. Tae-suk, il protagonista, non è identificabile, perchè è pieno di identità, balza da una casa all'altra, indossando polimorficamente i panni degli altri, sventendosi della propria anima per abbracciare quelle altrui. Non vuole rubare, nè spiare, nè scappare, nè appropiarsi di ciò che trova transitando per poche ore nelle abitazioni prescelte. Forse cerca la pace o forse vuole donarla, una sorta di angelo con la missione di portare sollievo, riempire uno spazio vuoto fino a che trasbordi di amore. E così cura anche se stesso. Fin quando incontra gli occhi di lei che più degli altri andrebbero salvati. La ragazza è, infatti, vittima della violenza del marito.
Come ricordo delle sue incursioni, il giovane crea una galleria fotografica dove s'immortala con foto dei veri abitanti, accanto ai loro oggetti quotidiani, surrealismo e fantasia pura soprattutto nei suoi siparietti in carcere che culminano in un criptico occhio stampato sul palmo della mano. E il tutto nella più totale assenza di parole, comunicando attraverso i gesti e gli sguardi, imparando ad amarsi piano, condividendo tutto il resto, prima ancora del corpo. Il luogo fisico della Casa, dimora di una borghesia ipocrita e violenta (incarnata dall'amante violento della donna), è finalmente dominato dall’uomo che riempie di significato le parole vuote coi suoi silenzi e sguardi, salvo un significativo Ti amo pronunciato da lei verso la fine.
La sensazione finale è quella di un film anarchico, o meglio di personaggi anarchici che rifiutano qualsiasi soluzione basata sulla comunicazione, sul dover dare delle spiegazioni, in una totale assenza di fiducia negli esseri umani.
Realtà o sogno? Potenza del cinema, ma a volte anche della stessa vita. E come recita la frase a fine film: "...è difficile dire se il mondo in cui viviamo è sogno o realtà"

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