venerdì 27 settembre 2013

Sacro GRA di Gianfranco Rosi, 2013

“Il mondo finisce sul Grande Raccordo Anulare” (Guzzanti)
GRA, nome in codice per Grande Raccordo Anulare è la più estesa autostrada urbana d’Italia. Rosi percorre questi 70 km lavorando e scoprendone il contenuto. Ma non solo esterni, qui si "violano" i domicili e le intimità di chi vive ai margini non solo metaforicamente ma concretamente. Attori che recitano la loro parte ogni giorno nella vita, ma che qui non sanno di recitare. Il primo a muovere i passi per studiare il "fenomeno" e il paesaggista Nicolò Bassetti, il documentarista ci ha poi confezionato questo film reale, accostamento che suona paradossale, ma non saprei come altro definire questo suo lavoro. Eccentrico, complicato, rumoroso, fastidioso. Personaggi ripresi mentre raccontano le loro storie: il nobile del Piemonte che vive con la giovane figlia che è sempre al pc, tenera la conversazione in cui lui si dichiara vecchio e vorrebbe quindi che la figlia trovasse un amore, con un aereo che sorvola su questo condominio come se vi dovesse atterrare. Un palmologo ogni giorno cerca di scovare le larve che si nutrono delle sue piante con un'insistenza ed una precisione ossessiva, da voyeur.Il cacciatore di anguille sul Tevere, indignato perchè i giornalisti scrivono corbellerie: “ma si informassero ‘sti ignoranti!”. Tributo alla Roma cinematografica: con degli attori (brutti) che posano e che forse per fare carriera sarebbero anche scesi a compromessi, perchè apparire è importante, sebbene non si sappia parlare senza azzeccare almeno una volta un congiuntivo. Ammaliata dalla prostituta che vive e mangia la mozzarella in un camper e che nei suoi momenti più alti di poesia canta la Nannini, dignitosa: "non siamo mai nude” Realtà o finzione? Non c'è distinzione, la potenza del film sta in questo connubio malefico, che mai potrebbe concretizzarsi come in questa pellicola: la realtà ha bisogno di essere finta e la finzione di basarsi sulla realtà per esistere. Pasoliniano. O vorebbe esserlo. Non esprimo giudizi, è un progetto ambizioso e rispettabile: autentico ed essenziale il messaggio. Sono perplessa sul premio a Venezia, azzardato, ma di sicuro il film convince anche se non conquista. Adatto al questo periodo autunnale perchè decadente come i personaggi di Gozzano. Ma, ormai, si sa, il cinema è ovunque. E in casi come questo anche quando non è eccezionale, sorprende e vince.

mercoledì 25 settembre 2013

Le diable probablement di Robert Bresson, 1977

“Neppure di fronte alla morte la vita può avere dignità”...
L'orso dargento al festival di Berlino del 1977 comincia con un lunghissimo flask.back e con i titoli dei giornali sulla morte di un giovane. Per poi discendere negli inferi di quei difficilissimi anni di piombo, la via crucis di un Gesù più giovane e laico. Società contrapposta al desiderio di libertà, evasione che portano a loro volta alla volontà di morire. Robert Bresson sfonda una porta già aperta in quegli anni. Il giovane diavolo è qui Charles, volto da adolescente, capelli biondi lunghi. Sessantottino, abbandona la famiglia borghese e va a vivere da solo. Noia, apatia. Partecipa alle riunioni di estrema sinistra, ma qualsiasi emozioni provi, il suo sguardo è sempre perso nel vuoto, spento. Michael, un suo amico che sta montando un film contro l’inquinamento, si preoccupa del suo stato mentale, e decide di andare a vivere con lui. Il mutismo di Charles parla attraverso le imamgini dei documentari contro l'inquinamento, contro le violenze impartite sui piccoli di foca. Edwige, la sua ragazza, lo tradisce, i primi piani sui suoi occhi però sono sempre gli stessi. "Ma non ci sono dei limiti al non fare niente?", gli domanda Michel. "Sì, ma una volta che li superi, provi una voluttà straordinaria, inaudita...". Progressismo e quindi ateismo. Dio non esiste, prenderne consapevolezza non è facile. La lucidità piena è follia, così il protagonista cerca prima di affogarsi in una vasca, ma sarà l'incontro con il tossicodipendente a segnare la via del non-ritorno. E lo psicanalista tra un buco di droga e l'altro dell'amico non basterà a salvarlo. Difficile e impegnato il cinema di Bresson, non adatto nel pomeriggio post.pranzo.

One Hour Photo di Mark Romanek, 2002

Le foto di famiglia ritraggono volti sorridenti: nascite, matrimoni, vacanze, feste di compleanno dei bambini. Si scattano fotografie nei momenti felici della propria vita, chiunque sfoglia un album fotografico ne concluderebbe che abbiamo vissuto un’ esistenza felice e serena senza tragedie, nessuno scatta una fotografia di qualcosa che vuole dimenticare.
Lavorare con professionalità in un punto di sviluppo rapido della fotografie di un grande ipermercato. Offrire professionalità in un luogo dove la gente va di fretta, compra, si rilassa, non bada alla qualità. Sy Parrish (Robin Williams, impeccabile ogni sua performance, è un mostro di bravura) è un uomo solo e come tale ha sviluppato una serie di ossessioni che riempiono la sua giornata: mangia solo alla tavola calda, un lungo corridoio dal quale accedere ad uno spoglio appartamento, senza colori e luce. Inquietante: supermercato con scaffali con la merce tutta in ordine, atmosfere autunnali, foglie che cadono, neon accecanti. Una regia non ottima, un film non brillante che prende ritmo quando ad un certo punto Sy viene licenziato e, nello stesso momento, da alcune stampe vien fuori che il signor Yorkin (padre della famiglia che il fotografo ha a cuore) è in realtà un marito infedele... Suggestionante il sogno in cui il fotografo immagina del sangue uscirgli dagli occhi: qual è, infatti, il difetto più comune delle foto amatoriali? Gli occhi rossi,un flash troppo invadente. Per un personaggio che vive in un mondo di foto, il simbolo dell'orrore non potevano che essere questo. Azzeccatissima la scelta. Come anche la scelta splatter di farlo schizzare. Robin Williams è un uomo sempre vestito di bianco, ha i capelli di un biondo quasi arancione, si muove in atmosfere senza spessore, senza colore. Delineate abilmente le ossessioni di Sy, il suo mondo, la sua estraneità ai contesti sociali. Mediocre però il resto. Non ho ben compreso cosa fa esplodere la sua follia, l'allontanamento dalla macchina da lavoro? Un uomo alineato quindi? Peccato che il regista non sia andato a fondo. Buona la conclusione e il dialogo finale con l'ispettore di polizia illuminante. Anche questo si svolgerà in un ambiente totalmente bianco.Prodotto medio dell’industria hollywoodiana, costato pochissimo e con un Williams che funge da specchietto per le allodole. Peccato, avevo sperato in qualcosa di più.

venerdì 20 settembre 2013

Rush di Ron Howard. 2013

«Quando scendo in pista sono consapevole di avere il 20% della possibilità di morire»
Uscito ieri. Hunt-Lauda e i loro capricci targati 1976. Razionale e freddo Lauda, lo scienziato delle corse; ribelle e dannato « perchè solo quando sei così vicino alla morte, ti puoi sentire realmente vivo» Hunt. Entrambi però disubbidiscono alle famiglie, vogliono sentirsi liberi,correre. Nonostante le due filosofie di vita agli antipodi, quindi, i punti in comune durante il film verranno fuori così come la medesima passione, che li porterà ad amarsi, difendersi e rispettarsi. Non sono un'appassionata di Formula 1, ma i rombi dei motori emozioneranno anche questa categoria alla quale la scrivente appartiene. La McLaren, che io ricordo, vanta autisti dalla tuta bianca, qui saranno le tute rosse, invece, a farla da padrona sia tra ferraristi che tra i loro antagonisti. Non saprò accattivarmi la simpatia di chi ama i motori, le corse, conoscevo Lauda solo di nome: ma ora so che è un mito, solo un incosciente rientrerebbe da un incidente quasi mortale dopo 42 giorni per poi ritirarsi senza acciuffare quella vittoria tanto agognata. Una crescita la sua. Una di quelle che forse ti portano a capire ciò che veramente conta. Una ricostruzione fedele, onesta, corse reali con tanto di fumo da sgommata e audio assordante. Un film che appaga gli occhi e il cuore e commuove. Ho tifato, trattenuto il respiro, abbassato gli occhi,sperato. Da pelle d'oca e lacrimuccia. La storia di due grandi campioni, quando la Formula 1 sapeva dare emozioni. Vere.

mercoledì 11 settembre 2013

La nona porta di Roman Polanski. 1999

Io credo nella mia percentuale.
Titolo intrigante: La nona porta, porta che conduce a Satana. E il film comincia con un suicidio. Dopo Rosemary's Baby un ritorno al satanismo. Ma questa è un'opera decisamente minore, e tale rimarrà. Johnny Depp fa sempre la sua bella figura, come anche la bella moglie di Polanski. Ho subito riflettuto sull'anno del film: 1999, con un 666 rovesciato. Dean Corso è un detective: rintraccia libri molto pregiati e ci fuma su, studiandoli. Beve whisky. Scopa pericolose donne in giarrettiera. Lavora per Balkan, che compie il lavoro sporco da solo: mi sono spesso chiesta,infatti, dopo ogni omicidio a opera del ricco bibliofilo che ingaggia Depp, a cosa serva il personaggio di Corso, che sembra ci sia nel film solo per attirare noi donne al botteghino. Apprezzo Depp, meno il suo ruolo nel film. Inutile Bocciato.

Come pietra paziente di Atiq Rahimi. 2012

"Gli uomini che non sanno fare l'amore, fanno la guerra!"
Atiq Rahimi è uno scrittore e regista afghano in asilo politico in Francia dal 1984. Solo la sofferenza di chi non può baciare la sua terra genera dei capolavori come questo. 100 minuti che t'inchiodano, eppure l'intero narrato si svolge tra quattro mura decadenti; una donna afghana parla con il marito in coma, colpito da una pallottola al collo, quindi inerme, immobile, la soluzione giusta affinchè lei possa raccontargli tutti i suoi segreti più intimi senza che venga uccisa. Un lunghissimo monologo. uterino, femminile, passionale, erotico. Bellissimo. "Oggi ci saranno i bombardamenti, rimanete in casa". In zona afghana, nei pressi di Kabul, si parla della guerra come di un evento atmosferico, come se piovesse. Tutto è di elevatissimo livello, soprattutto la fotografia: nature morte di rara bellezza (come il fagotto di melograni che il soldato innamorato regala alla donna). E che donna. Ineccepibile la protagonista Golshifteh Farahani, occhi e sguardi che non dimentichi, confessioni le sue a cui ogni donna si sentirebbe vicina. Condivisibile ogni sua parola o gesto. Anche quello estremo della fine. Che le libera uno dei sorrisi più belli mai visti in tutta la storia del cinema. La donna non ha volutamente un nome, la sua storia è quella di tante donne afghane, sposate con un mujaeddhin e trattate come serve ed estranee, ma dietro le quali si nasconde un'anima pulsante, carnale. Riscoprirsi donna e cominciare quella salita che conduce verso la propria felicità .Al culmine del suo percorso di conoscenza la protagonista si scopre addirittura profeta, identificandosi con Khadija, la moglie di Maometto. Nessuna nomination al film. Questo lascia molto perplessi.

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