martedì 30 settembre 2014

Séraphine di Martin Provost. 2010

"La pittura è scomparsa nella notte".
Se come me credete che l'arte sia un mistero, questo è il film che fa per voi. Sette César vinti non sono pochi; si tratta infatti dei premi nazionali di una cinematografia - quella francese - che non teme rivali quanto a qualità media delle pellicole prodotte. Qui l'arte è ispirazione divina, un talento naturale e necessità, una forza che tutto soggioga. Séraphine Louis è una donna umilissima con un talento prodigioso per la pittura.Lavora come serva e lavandaia, ma ha dentro una sensibilità singolare nei confronti della natura e un mondo ricchissimo che poteva essere espresso solo tramite la pittura. La miseria che racimola ogni giorno la spende per trovare i colori per la tela e non per mangiare, non ha carbone per scaldarsi. E’ una necessità che nasce da dentro ed è personale, non c’è ricerca di approvazione o ammirazione, lei dipinge solo per se stessa. A scoprire, in maniera del tutto casuale, questo talento è Wilhelm Uhde, collezionista e critico d’arte, tra i primi a comprare opere di Braque e Picasso e scopritore di Henry Rousseau. Il punto di vista del film è proprio quello del critico: noi, infatti, conosciamo Séraphine solo attraverso il suo contatto con Uhde, la prima volta nel 1912, quando il collezionista arriva a Senlis e riconosce il suo talento, Séraphine già dipinge, "... è stato il mio angelo custode a suggerirmelo", noi non sappiamo nulla di lei, il suo passato è un mistero e tale resterà. Quando poi Uhde deve scappare a causa della guerra, non sappiamo più nulla di Séraphine, è solo nel 1927, quando il critico nuovamente la incontra, che torna in scena. La sua incredibile evoluzione artistica, dalle prime piccole e stentate nature morte, alle opulente composizioni naturali è un enigma.Il collezionista contribuirà a distruggere la sua persona, mostrando la parte peggiore dell’arte: la creazione del culto della personalità dell’artista al solo scopo di guadagnare denaro. Séraphine è inconsapevole. Prima non vuole credere: “I ricchi sono sempre entusiasti”, poi cede e finisce per essere travolta e schiacciata da qualcosa più grande di lei.Morirà in un manicomio, tradita da un Uhde incapace per la crisi economica a far fronte alla sua pazzia. Straordinaria la bravura di Yolande Moreau nel rendere la goffaggine, la malagrazia, lo spirito scontroso ed eccentrico di Séraphine, si prova quasi avversione verso la sua figura, così sporca e trasandata, eppure i suoi quadri erano di una ricchezza e di una bellezza che lascia ancora oggi senza parole. Non tutti gli artisti sono pazzi, né, tutti i pazzi, artisti. Non è raro, però, che la follia vada a braccetto con la pittura, la musica, la letteratura. Ed è spesso da un´ossessione che scaturiscono colori, nascono forme, parole, note. Le ossessioni di Séraphine Louis erano addirittura due. Dio e la natura. Lei le fece coincidere. E magistralmente.

venerdì 26 settembre 2014

Pollock di Ed Harris. 2000

Jackson Pollock era un genio depresso, alcolizzato, con un travagliato rapporto con sua moglie Lee, ma capace al tempo stesso di diventare uno dei migliori pittori della sua epoca, essendo capace di creare una nuova forma di pittura grazie alla tecnica per ‘sgocciolamento’. Harris è qui regista e Pollock, aiutato anche da una somiglianza fisica incredibile, riesce ad assumere di Pollock ogni tic, ogni movenza, ogni atteggiamento. Al suo fianco la moglie Lee, interpretata splendidamente da Marcia Gay Harden, capace di sopportare ogni pazzia del marito e giustamente premiata con l’Oscar del 2001 quale miglior attrice non protagonista. Pollock: tormentato dalla necessità di esprimere se stesso e il desiderio di escludere il mondo intero dalla sua opera. Poi una giovane donna cammina portando con sé una rivista: è una copia di “Life” del 8 agosto 1949 e la presenta aperta ad un uomo che, con le mani sporche, vi pone la propria firma. E’ Jackson Pollock, al culmine della fama, mentre espone i suoi quadri ed alza lo sguardo, fissa lontano, oltre ad una qualche frontiera, come nella sua arte. Si lamenta del genio di Picasso perchè "lui aveva fatto già tutto" e viene riformato dall’esercito per problemi psichiatrici, comincia a dipingere dopo aver seguito all’Art Student Ligue i corsi di Thomas Hart Benton, pittore regionalista molto influente in quegli anni. Pollock cerca uno stile e proprio la Krasner lo introduce negli ambienti dell’avanguardia di New York. Conosce Peggy Guggenheim, interpretata da Amy Madigan che, stupita dal lavoro del pittore, organizza la prima esposizione personale (novembre 1843) e gli offre un contratto quinquennale. Gli commissiona inoltre un dipinto di grandi dimensioni che, nel film, Pollock dipinge in una sola notte, dopo settimane di indugio davanti all’enorme tela bianca. “Mural” è il titolo dell’opera e si presenta come un groviglio di linee ritmicamente ripetute, alludenti ad un caos primigenio. Nell’eseguire il lavoro Pollock esaurisce anche se stesso, ritrovandosi senza vitalità e ricadendo sempre nel vizio dell’alcol.A Long Island, il giovane Hans Namuth fotografa e filma l'artista al lavoro: le continue riprese sono una sofferenza ed infine Jackson, sentendosi "finto", ricomincia a bere, presenti tanti suoi "amici", compreso un'arrogante Harold Rosemberg, è l'ennesimo crollo. Follia e fragilità. Un film un po'sottovalutato, non eccezionale, ma importante.

mercoledì 24 settembre 2014

Onora il padre e la madre di Sidney Lumet. 2007

Vedi, il bello della contabilità immobiliare è che puoi aggiungere cifre in fondo alla pagina o in mezzo alla pagina e tutto funziona. Così ogni giorno... e fai quadrare i conti. Insomma, il totale è sempre la somma delle parti. È pulito, è chiaro, limpido, assoluto. Ma la mia vita, quella... quella non torna. Forse... non lo so, è fatta di pezzi scompagnati e io non sono la somma delle mie parti. La somma delle mie parti non dà un intero. Un me intero”.
Il titolo originale suonrebbe "prima che il Diavolo sappia che sei morto", ma in Italia ce lo dobbiamo sorbire con il titolo del quarto comandamento, onora, appunto, il padre e la madre. Anche se qui i comandamenti vengono violati tutti. Philip Seymour Hoffman tu eri straordinario: qui magistralmente a metà tra un eccesso di rabbia e il controllo di sé mal celato, cdpre del tutto il fratello, codardo e incapace di prendersi le sue responsabilità. La forografia è diafana e li rende degli insetti chiusi in un bicchiere di fronte allo sguardo di un entomologo che li osserva. Moltiplicati i punti di vista che fanni aumentare la tensione e offrono sempre particolari in più e più agghiaccianti, le menzogne hanno le gambe via via più corte. Desiderio did enaro, voglia di rivalsa, invidia, questa è la spietata società americana: Manhattan ed eroina. Flashback sincronici a suggellare una rapina che finisce male: con questa sintassi narrativa scopriamo prima che c’è stata una rapina in cui si è sparato e in cui una donna è morta, e poi che la rapina è stata organizzata dai figli della donna (la rapina così diventa un matricidio, “non tutti i peccati hanno lo stesso peso”, avvertiva una scritta all’inizio del film). Poi con dei flashback dedicati a ciascuno dei quattro componenti della famiglia si scava nella psicologia di ciascuno: uomini comuni, con i loro problemi, la loro situazione affettiva, lavorativa, sociale, famigliare. Un deserto esperienziale e relazionale sempre più opprimente ma in cui non c’è niente di eccezionale, niente di incredibile, a parte un dato sconcertante: potremmo essere noi. “È un mondo crudele” sentenzia il ricettatore di diamanti, fornendo al padre le prove della colpevolezza del figlio. Hank Hanson (Ethan Hawke), divorziato dall'ex moglie Martha è in ritardo di tre mesi con le rette del mantenimento della figlia Danielle, quindi ha un disperato bisogno di soldi. Poi l'idea: “C'è un posto che possiamo ripulire. Lo conosciamo come le nostre tasche. Soldi facili, insomma”.“Non vogliamo Tiffany, ma un negozio a conduzione familiare, in un posto frequentato, un sabato, quando gli incassi della settimana sono in cassaforte” Ma quella mattina invece della commessa anziana e cieca come una talpa, ad accoglierlo c'è Nanette, la madre. Sono entrambi armati, scatenano una sparatoria, Bobby muore sul colpo, Nanette dopo essere finita in coma in ospedale per le ferite. Sarà l'inferno. Marisa Tomei classe 64 ha un corpo da favola.

martedì 23 settembre 2014

The Descendants di Alexander Payne. 2012

"I miei amici sono tutti convinti che – dato che abito alle Hawaii – vivo in un paradiso. Come se fossimo sempre tutti in vacanza, a bere Mai Tais ancheggiando sulla spiaggia e a tuffarci fra le onde. Ma sono matti?"
Vincitore di due Golden Globe (miglior film drammatico e miglior attore protagonista, George Clooney)il senso del film è che anche alle Hawaii le persone possono soffrire, sbagliare, tormentarsi, insomma “vivere” e, - verità sconvolgente - morire. Una versione ammodernata e patinata di Anche i ricchi piangono, praticamente. Colori autunnali, se non invernali, traffico, povertà, gente in carrozzina, sgradevolezza in ciabatte, la moglie del protagonista in coma, sgraziata e bavosa su un letto gelido d'ospedale dimesso. Paradiso? “Paradiso, un ca**o” come ci dice subito il protagonista interpretato da un George Clooney col capello fuori posto, i piedi a papera che gli impediscono di correre in modo decente e un'aria da “cagnone”bastonato. Elisabeth, la moglie, è caduta da un motoscafo ed è in fin di vita, il marito si ritrova alle prese con un’elaborazione del dolore difficile dovendo inoltre prendersi cura delle problematiche figlie adolescenti. Una caccia all'amante perchè nei numerosi non-detti di questa famiglia c'è anche un tradimento. Il marito (il bel George Clooney, ma perchè ti sei sposato??)è discendente di una principessa indigena che ha lasciato a lui e ai numerosi cugini un’eredità preziosa, ossia una delle ultime terre rimaste incontaminate. Una fetta di paradiso di cui è prevista la vendita milionaria imminente.King, della lussureggiante proprietà, è l’amministratore fiduciario, a lui spetta la decisione finale. E che deciderà? Perfetti i dialoghi e memorabili alcune scene: quando Alexandra, da tempo arrabbiata con la madre, in piscina scopre che la donna non potrà mai più riprendersi dal coma si immerge nell’acqua e urla, è una scena straziante, evocativa e molto simbolica, che da sola basterebbe a giustificare la vittoria ai Golden Globe. L'amico di una delle due figlie l'ho trovato un personaggio veramente inutile, non dà nulla al film, semmai toglie.Ottima invece la scelta del testamento biologico (preparato anzitempo dalla moglie) a quando una legge, chiara e scevra da influenze ideologico-religiose, anche qui, nel Bel Paese? Alexander Payne mi piace. Lo confesso. E mi piace anche George Clooney. Ah, che centra I discendenti con la traduzione Paradiso amaro?? Qui il nucleo centrale è proprio la famiglia: La famiglia è come una penisola, dice ad un certo punto Matt King: tante individualità collegate in qualche modo ma che non comunicano. La famiglia quindi come terreno di scontro, ma anche come unico punto di ripartenza, di ricostruzione di un futuro quanto meno accettabile malgrado tutte le difficoltà, le sofferenze e le incomprensioni che la vita di tutti i giorni può regalare. Il ritorno ad una normalità parziale che vera normalità non potrà mai essere.

lunedì 22 settembre 2014

Le ricamatrici di Éléonore Faucher. 2004

Claire è incinta, una gravidanza indesiderata e ormai troppo avanzata per essere interrotta volontariamente.Capelli arancioni rossi e ricci a cui aggrovigliare tanta solitudine: nonostante sia solo diciassettenne, Claire ha già imparato a vivere lontano dalla famiglia e a non aspettarsi nulla dai genitori. Le colleghe del supermercato notano il suo aumento di peso, per mantenere il suo segreto, inventa un tumore a causa del quale è costretta a seguire una terapia cortisonica. Per rendere più verosimile la sua storia si strappa una ciocca di capelli e corre via piangente, ma nessuno la raggiunge per consolarla. Anche il ragazzo che l’ha messa incinta, o almeno così si presume, si allontana da lei. Ma all'anaffettività Claire è abituata, non si stupisce. Anche la ginecologa impone un atteggiamento giudicante verso la ragazza, chiaramente debole e confusa. Claire vuole abortire!Alla fine si decide per un parto in anonimato e chiede alla ginecologa di scrivere su un foglietto il sesso del feto riconosciuto con l’ecografia. Il foglietto viene inserito in una busta, a mò di lettera, e conservato dalla protagonista fino alla fine del film.Finchè non conoscerà l’identità del figlio, Claire potrà continuare a fantasticare che non esista. Claire non ha una madre da prendere come modello, la presa di coscienza di ciò che significhi essere madre, avviene in una scena in cui Claire e la sua vice-madre ricamano insieme un vestito molto impegnativo e la signora Melikian le parla di un diario in cui ha descritto minuziosamente i primi mesi del figlio. “Avrei voluto regalarlo a mio figlio per il suo matrimonio, per quando sarebbe diventato padre”. Stupendo il tabù del desiderare una donna incinta - il fratello della sua migliore amica è attratto da Claire- struggente la sofferenza di Claire a causa del suo corpo deformato e ancor più a causa della sua nuova identità di madre che minaccia la sua vita sessuale, prima così libera e spregiudicata. Fin quando nella signora Melikian Claire proietta se stessa, perciò le dona il suo affetto, la sua complicità incondizionata e immotivata dalla conoscenza inizialmente superficiale tra le due. Quando la signora Melikian tenta il suicidio, Claire la salva e la va a trovare in ospedale tutti i giorni nonostante la signora la respinga. Grazie a Claire riscopre la possibilità e la bellezza di un rapporto affettivo profondo, la vita in senso lato. Ritorna così a provare piacere per il ricamo, addirittura si mette a cantare durante il lavoro, prende parte ad una festa e porta dei nuovi campioni ad un famoso stilista di Parigi. Un film al femminile, dove gli uomini sono assolutamente in secondo piano, poco narrati, e tutto sommato poco utili all’intreccio della trama.

sabato 20 settembre 2014

C’era una volta un’estate di Nat Faxon e Jim Rash. 2013

Dedicato all'ultimo giorno di estate.
"Dimmi: tu cosa sei in una scala da 1 a 10?", "6", "No: sei un 3". Un non -luogo e un non-tempo:una lunga estate calda con biciclette vintage e pochi cellulari, che ammicca molto agli anni 80, un lavoro in un lunapark e ritrovarsi alla fine un po' più adulti, un coming of age, nulla di così eclatante, ma capace di emozionare con quella semplicità giusta e mai banale. Come da copione c'è l'arrivo, l'assunzione delle prime responsabilità, la scoperta di un rifugio in cui nascondersi dai drammi familiari e ritrovare a sorpresa una famiglia di lavoratori affiatata e un po' isolata dal mondo, per poi chissà imbattersi anche in un primo amore. La seconda fase, immancabile, è invece l'addio, la fine dell'estate, il momento in cui trasformare le esperienze vissute nel coraggio necessario ad abbandonare quella nuova casa, per ritornare nel mondo un po' più forti e cresciuti. Duncan ha quattordici anni, timido tanto da camminare ripigato su se stesso, genitori divorziati e in viaggio per l'estate con la madre Pam e il suo nuovo compagno, Trent - interpretato da un inedito Steve Carell, davvero grande nel restituire la sgradevolezza del suo personaggio ad ogni inquadratura. Non è il massimo fare da tappezzeria ai festini alcolici dei suoi genitori, persi in una movida estiva che mal nasconde i peccati di Trent e le debolezze di Pam. Accantonato dalla madre e troppo timido per fare nuove conoscenze, Duncan troverà la sua salvezza in Owen, l'infantile e goliardico manager di Water Wizz, che lo assumerà nel suo parco acquatico prendendolo in simpatia. Lui che aveva viaggiato assieme ai bagagli nel retro della macchina, quasi come se fosse un pacco, troverà la sua guida proprio nel proprietario del parco acquatico e da fratello maggiore riuscirà a convincerlo a provare a baciare la bella ragazza bionda che abita accanto a casa sua. Impeccabile la scrittura che compensa su tutto il resto, tra cui la regia.

venerdì 12 settembre 2014

Gigolò per caso di John Turturro. 2014

"Se sapessi cosa c'è nella vostra mente non mi troverei qui"
David Foster Wallace descriveva così i newyorkesi: «hanno la capacità incredibile di badare ai fatti propri, di starsene per conto loro e non accorgersi che succedono cose sconvenienti, una capacità che mi colpisce ogni volta che vengo qui (a New York, ndr.) e che sembra sempre collocarsi a un certo punto del continuum tra stoicismo e catatonia». «Il mestieri più ancico deil mondto» biascica in un italiano per forza di cose americanizzato Fioravante, rievocando una conversazione con il suo amico di una vita Schwartz; siamo nel quartiere di una comunità ebraica e Fioravante economicamente al capolinea, si ricicla facendo il mestiere più vecchio del mondo. Woody Allen - che qui si diverte senza dover dirigere- è un bibliotecario ebreo, "ma di leggere i libri non gliene frega più niente a nessuno" con tanti figli (non ho capito quanti) avuti da un afro-americana, diventa il pappa del gigolò. Che "non è bello come Mick Jagger, ma chi se ne frega". Qualche accenno di scrupolo morale («queste donne sono vulnerabili»), qualche riserva sul proprio grado di virilità, ma poi l'anziano Allen lo convince.Questa ispiraziona buffa e bislacca gli è venuta da una confidenza fattagli dalla sua dermatologa (Sharon Stone) che sentiva il desiderio di un menage a trois di tipo puramente sessuale. Turturro qui rivendica il più possibile le sue origini italiane sia davanti che dietro la macchina da presa, riservandosi perfino qualche battuta nella nostra lingua e affidando ruoli chiave della troupe a professionisti italiani (la fotografia è di Marco Pontecorvo, il montaggio di Simona Paggi). E quella gnocca di Vanessa Paradis, il cui sguardo sarebbe in grado di stregare chiunque (me che scrivo, compresa).Sharon Stone è una meravigliosa cinquantenne e Sofia Vergara incarna la quintessenza dell'erotismo. Bellissima l'amicizia tra i due protagonisti, Allen ha di sicuro contribuito non ufficialmente alla sceneggiatura, i dialoghi tra i due sono esilaranti. Solitudine e crisi economica vengono dimenticate quando sono insieme. Quella di Gigolò per caso è una New York marcatamente multietnica, dai toni rossicci, con un sottofondo di jazz raffinatissimo e dove di americani quasi non se ne vedono, a parte l’insoddisfatta Sharon Stone. Lo stesso duo composto da Turturro ed Allen si prende simpaticamente gioco di certi luoghi comuni, fondati o meno che siano, dei rispettivi popoli a cui appartengono: Fioravante è latino, poetico, grande amatore per vocazione, di poche parole ed apparentemente avulso da ciò che lo circonda; Murray Schwartz è invece l’ebreo con la naturale propensione per gli affari, abile affabulatore, testardo senza essere mai molesto. Ah sorvolate su cose si fa il frappè al cioccolato. E ancora una volta sulla resa italiana del titolo. Questa quinta regia di Turturro è una delizia.

giovedì 11 settembre 2014

Blue Jasmine di Woody Allen. 2013

Se Erasmo da Rotterdam sosteneva che il solo prezzo da pagare per raggiungere e mantenere la felicità è solo un piccolo inganno di sé, cosa succede quando quest’ultimo assume proporzioni incontrollabili? Il geniale ossessivo-compulsivo Allen, che tutti amiamo, ha in questo film una controparte femminile:"Blue Jasmine" la cui pazzia e rovina paiono essere una meritata ricompensa al suo operato: vi è una latente condanna a tutto un sistema valoriale, alla sua vacuità qui rappresentato dalla protagonista. Le digressioni che ricostruiscono la sua storia non sono introdotte da alcuna cornice, ma si alternano liberamente nella narrazione, di norma anticipate solo da un elemento semantico, una parola, un sintagma che nel presente per affinità insinua un ricordo passato. La menzione della frode alla sorella, del tradimento, del profumo francese aprono altrettante parentesi visive nello svolgimento della trama, in un disvelamento lento ma costante del passato di Jasmine, della sua reale natura che via via si rivela sempre più meschina. Amorale, frivola, finge di non vedere coò che suo marito truffaldino fa. Questo film, infatti, è come se fosse concentrato tutto sul marito di Jasmine, che agisce mentre lei guarda altrove. Guarda alle cene, ai viaggi, ai braccialetti di Tiffany. Questa donna poteva trovare un uomo che la costringesse a una relazione di intimità autentica? No, e quando lo trova, lo perde perché una vicinanza autentica lei non sa cosa sia. Una donna fragile, incapace di affrontare la vita, incapace di guardare veramente ciò che il marito le fa firmare, di rendersi conto della inautenticità del marito e delle sue relazioni, di approfondire, di analizzare e di ragionare. Ma che sa sognare. Anche sua sorella ha i suoi traumi: come Jasmine adottata, si sente geneticamente inferiore, meno bionda, meno alta, meno bella, vola basso, si accontenta di una vita un po’ sfortunata e faticosa e povera, ma è realista. Jasmine, che era quella “dai geni buoni”, più bella e più bionda, che ha volato più alto, che si è tenuta più lontana dai temi dolorosi,incontra poi la realtà: il film è la trasposizione di questa realtà. Usa la dipendenza (da alcool, da pillole), a volte diviene dissociata, si allontana dalla situazione che sta vivendo, straparla, parla da sola, si racconta agli altri non vedendoli, non ascoltandoli mai, inventa una vita diversa. Un altro suo modo di reagire è il disprezzo verso la normalità e tutto quello che sa di “normale”, “squallido” e poco elegante. Perchè è sola. Jasmine era sola quando era sposata con suo marito, era sola con le sue amiche al bar, era sola nel mondo luccicante della sua vita di prima, ed è sola quando è in casa con la sorella e i nipoti, e infine è sola seduta su quella panchina che dialoga con i fantasmi della sua vecchia vita. Se qualcuno ha deciso di tenersi lontano da Blue Jasmine perché ha pensato ad uno dei soliti e scontati film di Woody Allen degli ultimi anni, ad una nuova commedia lieve, innocua e poco ispirata, sappia che ha preso una cantonata. Affascinante e delicato. Come le note di Blue moon, una canzone per sempre: Jasmine la ricorderà in eterno, fece da colonna sonora all’incontro col marito Hal quello che “cambia nome a quella società”, “liquida quell’altra”, ma si dai, diciamocelo, anche se la protagonista ci farà simpatia, in fondo è una cinica, un'arrivista. Questo era il suo più grande, e forse unico, obiettivo nella vita: trovare un bel marito di successo che la mantenesse e viziasse nel lusso più sfrenato, la inserisse nella migliore società newyorkese e soddisfacesse ogni suo desiderio. Anche quando il marito la sta per lasciare avrà una reazione spropositata -“tu sei mio”- non tanto per il dolore del tradimento, ma per la perdita dello status sociale. Distrugge tutti i legami con chi le sta vicino e usa la scusa della beneficenza come giustificazione alla vacuità morale che l’ha invasa. E quando rimane vedova Jasmine prolunga la propria illusione così: viaggiando in un posto di prima classe e con addosso abiti costosissimi che non può permettersi ma senza i quali il suo equilibrio crollerebbe immediatamente. Tutto ciò che la attornia, dal rozzo futuro cognato Chili agli improbabili, insignificanti spasimanti, dal grigio nuovo impiego come segretaria di un dentista di periferia allo sciatto appartamento di Ginger rischia di farla crollare, almeno fino all’incontro con Dwight, un sofisticato diplomatico con cui risalire la china e ridare forma alle illusioni sembra in qualche modo di nuovo possibile.È un Woody Allen stanco e rassegnato, insomma, quello che si nasconde dietro il volto scavato dalla disperazione di Jasmine – Cate Blanchett, un Allen che, stavolta, sembra aver ritrovato la sua grande capacità di raccontare quelle psicologie nevrotiche, ciniche e spesso moralmente vuote che da sempre hanno affollato e, si spera, affolleranno ancora a lungo la sua filmografia.

mercoledì 10 settembre 2014

I fiori della guerra di Zhang Yimou. 2011

Dedicato ai tanti sacrifici delle donne Dicono che le prostitute non hanno cuore. Quindi domani facciamo qualcosa di onorabile per i nostri cuori.
Nel dicembre del 1937, durante il conflitto sino-giapponese, le truppe del Sol Levante conquistano la città di Nanchino al termine di un sanguinoso assedio. Pare questo sia uno dei film più costosi mai realizzati in Cina, anche se i veri fatti e numeri legati al massacro di Nanchino sono tuttora poco chiari e controversi, ma un plauso al regista perchè si tratta di una tragedia sconvolgente e poco conosciuta ancora purtroppo in Occidente e questo è già un buon motivo per vedere il film, che pure si limita e non la rende nella sua immensa dimensione. Christian Bale è un becchino arrivato a Nanchino nel 1937, in piena guerra sino-giapponese, per seppellire il prete cristiano di una chiesa locale. Giunto sul luogo, scopre che questo non è disabitato, ma occupato da decine di ragazze fuggite dalla crudeltà della guerra, sperando che la sacralità della dimora le salvasse dal brutale conflitto. Quando l'esercito invasore irrompe nel luogo sacro, con lo scopo di violentare le giovani, Miller sceglie di fingersi uomo di chiesa e garantire così la loro incolumità. L'arrivo di un gruppo di prostitute, anch'esse in fuga, dopo i primi contrasti, creerà un forte legame tra persone così diverse, che si troveranno a lottare insieme per una comune possibilità di salvezza. Probabilmente questo film meritava un passaggio nelle sale cinematografiche prima della distribuzione in home-video. Non è stato gradito il patteggiare spudoratamente per i cinesi? La storia questa è. Non si può mica riscrivere. C’è solo un personaggio giapponese apparentemente positivo: il colonnello che va a chiedere scusa per il tentato stupro operato dai suoi soldati. Ma non è poco, giacché l’esercito nipponico, nel massacro di Nanchino, commise stragi e atrocità ben documentate ai danni di circa mezzo milione di persone, compresi donne e bambini. Curioso aspettarsi un film più “comprensivo” da parte di un regista cinese. Pellicola rispettabilissima, onesta e di rara bellezza: le immagini all’interno della chiesa – illuminata da una grande vetrata policroma che va in frantumi per i proiettili – sono qualcosa di paradisiaco. Fantastico Bale nei panni di un falso prete (inizialmente solo per convenienza, poi per altruismo - si scoprirà il suo dramma familiare-), che “ricorda il catechismo qualche volta quando è ubriaco”, innalza una preghiera molto vera quando diventa eroe, pregando – sfumatura non scontata – per gli altri. Nel 1937, anno in cui si svolge la vicenda, la Chiesa era ancora libera; la sua effettiva messa in clandestinità a causa del Partito comunista si avrà con la creazione dell’Associazione patriottica cattolica cinese, vent’anni più tardi. Recuperatelo!

lunedì 8 settembre 2014

La donna che canta di Denis Villeneuve. 2010

"La matematica, come l'avete conosciuta fino a oggi, ha cercato di fornire risposte certe e definitive a problemi certi e definitivi. Ora state per affrontare un'avventura totalmente diversa: vi troverete di fronte problemi insolubili che vi porteranno sempre verso altri problemi altrettanto insolubili. Le persone intorno a voi vi ripeteranno che la cosa su cui vi scervellate è inutile: non avrete argomenti per difendervi, perchè quei problemi saranno di una complessità estenuante. Benvenuti nella matematica pura, nel paese della solitudine". [Dominique Briand]
You and Whose Army? dei Radiohead (dall'album Amnesiac del 2001) e lo sguardo spento e ferito di bambini che vengono rasati...Parallelismi tra matematica e vita. Poi Medio Oriente, un non-luogo mai veramente specificato. E due gemelli - che per volere della madre appena morta- vi si recano. Un regista un po'sciatto, che dedica poco spazio alle riflessioni personali - tante ne nascerebbero in questo film. La madre da giovane - "la donna che canta"- e la figlia si somigliano in modo sbalorditivo, passato e presente si alternano in maniera disorientante. Al notaio Jean Lebel la donna che canta scrive:" seppellitemi senza bara, nuda e senza preghiere, con il viso rivolto al suolo, spalle al mondo. Lapide ed epitaffio: sulla mia tomba non ci saranno lapidi e il mio nome non sarà inciso da nessuna parte. Nessun epitaffio per chi non mantiene le promesse. A Jeanne e Simon: l'infanzia è un coltello piantato in gola che non si tira via facilmente. Jeanne, il notaio Lebel ti consegnerà una busta: questa busta è destinata a vostro padre. Ritrovalo e consegnagli la busta. Simon, il notaio ti consegnerà una busta: questa busta è destinata a vostro fratello. Ritrovalo e consegnagli la busta. Quando le buste saranno state consegnate ai loro destinatari, vi sarà data una lettera: il silenzio verrà rotto, una promessa mantenuta e sulla mia tomba potrà posarsi una lapide e su di essa il mio nome, alla luce del sole". Quindi due uomini: un padre e un fratello da trovare:ma è sul serio così? IL disonore di una gravidanza nata dall'amore con Wahab, un uomo di un'altra religione, poi la guerra, fino al suo trasferimento obbligato in città dopo il parto, agli studi e all'inizio di una nuova vita. Trentacinque anni dopo, la figlia vi ritorna: apprende che la madre, ai tempi dell'università, scriveva sul giornale studentesco ed era una fervente pacifista: all'inasprirsi delle tensioni tra cristiani e musulmani, cercò tanto quel figlio avuto affidato in orfanotrofio. Kfar Ryat è il nome della prigione nel sud del Paese dove ha scoperto essere stata rinchiusa la donna che canta, ma perchè? E Wahab è suo padre? Nawal, travolta dagli orrori della guerra, in realtà, abbandonò il pacifismo per schierarsi contro i nazionalisti, sostenitori della destra cristiana: arrestata per aver assassinato il loro leader, venne imprigionata a Kfar Ryat. Sua madre era "la donna che canta, numero 72", rinchiusa lì per 15 anni, torturata e violentata dal sadico carceriere Abou Tarek, finchè non rimase incinta. Poi, dopo il parto, venne rilasciata. A Jeanne non resta che tornare a Daresh, dove vive l'infermiera che fece partorire Nawal, per avere le ultime conferme. E scoprirete che "Uno più uno fa due, non può fare uno". Vincitore del Mouse d’Argento a Venezia 2010 e del Miglior film canadese al Festival di Toronto.

mercoledì 3 settembre 2014

Il futuro di Alicia Scherson. 2013

«tutta la scrittura è porcheria. Le persone che escono dal vago per cercar di precisare una qualsiasi cosa di quel che succede nel loro pensiero, sono dei porci»
Roma. Bianca e Tomas restano orfani a seguito di un incidente che ha causato la tragica morte dei loro genitori. Da quel momento, come un fulmine a ciel sereno, ai due non resta che crescere di botto e farsi una vita. Vada come vada. E va che i poveri fratello e sorella s’imbattono in due scansafatiche (tra cui uno è Nicolas Vaporidis, qui anche in veste di produttore associato), che escogitano il “colpo da maestro”: intrufolarsi nella villa di un attore sepolto sotto le macerie del tempo, messosi in mostra per il suo bel fisico e per una lunga serie di film in cui ha interpretato sempre lo stesso ruolo, quello di Maciste. Bianca è asettica in tutto il film, deve trovare la chiave che apre la cassaforte di Maciste. Ma avrà la sua prima cotta, anche se descritta in una maniera veramente banale. Ma poi perchè è sempre così oliata? Lui con mani grossolane le prepara sandwich e le chiede delucidazioni in merito al colore del proprio sperma. Un film veramente vuoto.Fallimentare. Una porcheria. Tuttavia ringrazio la giovane regista cilena e tutti i registi che, in Italia, ci parlano di angoli nostrani.

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