martedì 21 luglio 2015

Dallas Buyers Club di Jean-Marc Vallée. 2013

"Mi sta dicendo che valgo quanto un cavallo destinato a diventare cibo per cani?"
Texas anni 80. Ammalarsi di AIDS era equiparato ad aver compiuto un efferato crimine. Intolloranza, pregiudizi, omofobia. Il protagonista e vittima è Ron, cowboy di Dallas, normale finchè dedito a rodeo e belle donne. Poi scopre che, invece, di avere migliaia di linfociti, ne ha solo nove. Sarà un viaggio all'interno delle case farmaceutiche per scoprire come poter andare oltre "quei 30 giorni" diagnosticatogli, scoprendo che il business viene prima della salute. L'Azt è il farmaco "legale" usato per sconfiggere il male, che si scoprirà in realtà essere nocivo, solo in Messico vertà poi curato con medicinali non approvati dall'FDA decidendo di contrabbandare questi farmaci non autorizzati. Crea il Buyers Club da cui il titolo, 400 dollari di quota associativa e si riceve la merce. Grazie a Rayan, l'amico transessuale, Ron esce dal tunnel dell'omofobia. A onor del vero, dopo aver effettuato delle ricerche innescate dalla voglia di comprendere meglio post-film, ho letto che in realtà il contestato farmaco AZT è molto utile contro l'AIDS, mentre molti dei farmaci importati da Woodroof no. Ci sono delle interviste on line di Woodroof, l'uomo realmente ammalato di AIDS, a cui il film si ispira, non prese mai parte ad un rodeo, era solo un appassionato, qui Ron cavalca i tori, forse per simboleggiare quanto solo un uomo così ostinato potesse fronteggiare, "prendere per le corna" una malattia così devastante. Sui gusti sessuali veri ho letto, invece, pareri dissonanti: chi lo definisce omofobo, la moglie, invece, dichiara che fosse bisessuale, la dottoressa che lo curava che si dichiarasse gay. Di sicuro anche Woodroof venne abbandonato dagli amici quando si seppe che era sieropositivo, aveva, inoltre, una ex moglie, figlia e sorella non inserite nella sceneggiatura. Woodroof, che fino a prima di ammalarsi era convinto che l’AIDS fosse una malattia associata solo a gay e tossicodipendenti, scopre che può essere trasmessa anche con rapporti non protetti e si ricorda di aver fatto sesso con una ragazza che aveva dei buchi sulle braccia. Rayon è un perosnaggio inventato, ma è necessario per far capire come Ron cambi atteggiamento nei confronti dei gay. Woodroof fece causa contro il divieto ma, com’è mostrato nel film, la perse: il giudice Charles Legge disse di essere personalmente d’accordo con le sue ragioni, ma che non trovavano giustificazione nelle norme vigenti.

lunedì 20 luglio 2015

The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese. 2014

"Mi chiamo Jordan Belfort. L'anno in cui ho compiuto 26 anni ho guadagnato 49 milioni di dollari, il che mi ha datto molto incazzare, perchè con altri 3 sarei arrivato a un milione a settimana"
Il gotico Shutter Island del 2010mi aveva letteralmente conquistata. Insomma Martin Scorsese è un fuoriclasse e non si discute. Eppure questo film non merita di essere visto. Il film è tratto dalla storia vera di Jordan Belfort che lui stesso ha raccontato in un libro. Ogni lupo che si rispetti deve vivere in branco e Belfort se ne è costruito uno fatto di suoi vecchi amici. Non gangster, qui siamo però nel mondo della finanza.La sceneggiatura convince, è perfetta: Belfort racconta al passato ricostruendoci la vicenda volgare e patetica Soldi, sesso e stupefacenti. Questo film ha tutti gli ingredienti per essere definito una classica americanata, regola delle tre esse compresa."Fuck" viene ripetuto un milione e mezzo di volte, anche senza motivo.Sesso con prostitute divise con metodo accurato per fasce di prezzo, orge in ufficio al suono della campanella di fine contrattazioni, nani imbracati lanciati come freccette contro un bersaglio carico di dollari, droghe consumate fino a sfinimento per non esaurire il propellente del delirio. E la scena della ragazza nuda con i soldi incollati sulle chiappe? No, grazie, ho visto abbastanza. Senza emozioni. Gli affari diventano qui un mezzo per sostenere l’edonismo da teatro dell’assurdo, l’epica ostentazione di ciò che fa vibrare gli organi meno coscienti del corpo, con la banalissima conclusione che alla fine non tutto poi si può comprare.

giovedì 9 luglio 2015

La madre di Angelo Maresca. 2014

Tratto da un romanzo di Grazia Deledda, di una Sardegna in cui, nei piccoli centri, il rigore dei principi e la repressione sono ancora dominanti, ma ambientato a Roma, nel quartiere Eur e allocando la chiesa nel Colosseo Quadrato. Tanti i campi lunghi che permettono di seguire negli spostamenti, anzitutto della madre, che va avanti e indietro ostinata e rabbiosa nella sua lotta di dissuasione sugli amanti. Maddalena è stata prima un’orfana, poi una serva, poi una ragazza madre, infine una giovane vedova. Don Paolo è figlio di una violenza, confessa i suoi parrocchiani guardandoli negli occhi, come un marito fedifrago, lui che è avvinto da carnale passione alla bella borghese Agnese. Amore materno ossessivo, pedina il prete mentre si reca dall'amante, con gli stessi diritti di una moglie tradita. Lei, gambe tornite e corpo appesantito, da quella vetrata osserva il loro peccato. Don Paolo si lava e profuma prima dell'appuntamento e il regista non è avaro nemmeno nel mostrare tutti i suoi amplessi, i due consumano un frettoloso rapporto persino in Chiesa. Una canonica spoglia, ma piena di luce, così come la casa che il prete divide con la madre: con enormi quadri alle pareti con scene angoscianti a rappresentare il senso del peccato, statue ricoperte da teli, vetri offuscati che, anziché far trasparire, nascondono. Carmen (la madre) è spagnola e di umili origini, la donna che Paolo sceglie è bionda, alta, sofisticata, altera, quasi glaciale, ricca, vestita spesso di bianco e nero come l’ambiente intorno. Una donna viziata, di quelle incapaci di perdere. Questo è limite del film: troppe spiegazioni causa-effetto, l’origine della vita dei personaggi andrebbe intuita dalla scrittura, perché il determinismo in psicologia e nella vita è sempre riduttivo e pericoloso. Brutto anche il flashback gratuito, dove Carmen lava il figlio ormai adolescente, mentre gli chiede se è contento della sua vita in seminario e lui non può che rispondere di sì.Un incestuoso dramma edipico svenduto senza sentimento.Tanto da non capire, per tutta la durata del film, se Paolo soffre di più per la disubbidienza a Dio o per il sacrilegio di dover disubbidire alla Madre.

mercoledì 8 luglio 2015

Under the Skin di Jonathan Glazer. 2013

"Will You Come With Me?"
Jonathan Glazer è un nome di tutto rispetto: a lui associo i videoclip dei Massive Attack, Radiohead. Under the skin richiama moltissimo, infatti, l'atmosfeta onirica, ipnotica di Karma Police, ambientando la pellicola nelle cupe e fredde atmosfere scozzesi, fatte di cieli plumbei, mari in burrasca che inghiottono suicidi disperati e spiagge deserte dove bambini abbandonati piangono nell'indifferenza della solitudine. Un motociclista misterioso recupera il corpo esanime di una donna ai lati di una strada. Trascina quello che sembra un cadavere sul cassone di un camion dove, un'entità aliena si appropria di quel corpo letteralmente indossandolo. E in questa nuova veste la "donna", viaggiando per la Scozia col suo camiocino adesca uomini soli, preferibilmente senza affetti familiari e complicazioni varie, e li fa scomparire. Campi lunghi, inquadrature fisse e liqudo nero che inghiotte le vittime poco prima dell'amplesso. il suo scopo è proprio questo: accalappiare uomini con l’arma della seduzione, lei mantide di chissà quali galassie, opera in un microcosmo in cui agisce senza comprendere. Non sa provare pietà, empatia, non sente nulla. Finchè un giorno non comincia a prendere consapevolezza del suo corpo, lo scruta allo specchio e sceglie di farsi preda per sentirlo. Perchè come gli alieni di District 9, anche lei si fa strumento per osservare noi stessi, per misurare il grado di (dis)umanità della nostra specie. Gelido, cattivo, quasi entomologico, incorniciato da un’ambientazione perfetta e una interpretazione della Johansson a grado zero. Un esperimento visivo straniante, grazie anche all'affascinante colonna sonora di Mica Levi

lunedì 6 luglio 2015

Lucy di Luc Besson. 2014

Mamma, sento tutto. Lo spazio. La terra. Le vibrazioni. La gente. Riesco a percepire la gravità. Riesco a percepire la rotazione della terra. Il calore del mio corpo. Il sangue nelle mie vene. Riesco a percepire il mio cervello. Il profondo della mia memoria. Il dolore nella mia bocca. Ora capisco queste cose. Riesco a ricordare la sensazione della tua mano sulla fronte quando avevo la febbre. Ricordo di accarezzare il gatto, era così morbido. Ricordo il gusto. Il gusto del tuo latte nella mia bocca. Il sapore, il liquido caldo.
Un pasticciaccio pop, ma con una premessa: non è vero che usiamo soltanto il 10% della potenza del nostro cervello. Si tratta di una credenza popolare molto diffusa e ampiamente fomentata da vari film, libri, pubblicità ecc. In realtà, usiamo tutto il nostro cervello e non soltanto una piccola parte (tranne nei casi in cui ovviamente delle malattie o dei danni cerebrali hanno colpito alcune aree rendendole inutilizzabili. Lucy, però, a contatto con una nuova droga riesce a sviluppare la capacità di utilizzare al massimo il suo cervello (il film sostiene che un essere umano può solo usare 10% della sua capacità mentale). Scarlett Johansson non ha nulla da invidiare alla Milla Jovovich de Il quinto elemento, e ricorda molto Nikita, a cui Besson non smette per un attimo di pensare: bastano i primi venti minuti del film, senza dubbio i migliori, per capire quanto il regista si rifaccia al suo vecchio action (ad oggi il suo film più bello), anche quello alle prese con una ragazza "sballata" che si trasforma in donna letale. Le donne incinta producono una sostanza naturale chiamata CPH4, base dello sviluppo osseo del feto. Sintetizzare in laboratorio questa sostanza vorrebbe dire generare una bomba chimica capace di aprire porte della mente ancora sconosciute e di sprigionare infinite potenzialità inespresse. In contemporanea ad una conferenza - dove l'eterno Morgan Freeman ci espone la teoria della storia dell'uomo, illustrando come il nostro cervello sia utilizzato di media al 10 % con punte massime del 20, esponendo le eventuali e fantastiche facoltà potenziali di quell'ottanta percento inesplorato -assistiamo alla storia di una 24enne che per obbligo del fidanzato diventa corriere della droga: una potentissima combinazione sintetica, sistemata nel pancino. Da qui l'accidentale rottura del “prezioso” plico provoca una serie di reazioni psico/fisiche che incrementeranno le potenzialità cerebrali di Scarlett dal suo anonimo cinque/sei per cento fino a al cento, anche se non si capisce bene l'utilizzo che poi decide di farne, come ad esempio quando dice al poliziotto:“fermami quelli la fuori”,ma fermateli da sola no?! Bellissima la scena della conversazione telefonica con la madre, il tutto mentre un chirurgo cerca di metterle i punti di sutura senza anestesia. Cpme anche l'incontro tra le due Lucy: le dita delle due prime donne che si incontrano sono il principio e il futuro del cambiamento, "dall’evoluzione alla rivoluzione" si ascolta a un certo punto del film, perchè il messaggio attraverso Lucy di Besson è che saranno la conoscenza e l’autoconsapevolezza a migliorare le persone e a salvarci. Peccato che le buone idee di scrittura debbano essere sempre subordinate all'intrattenimento.

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