lunedì 30 dicembre 2019

The Meyerowitz Stories di Noah Baumbach. 2017

Ora posso affermarlo con certezza: dopo Allen, Baumbach scrive i migliori dialoghi dell’attuale cinema americano, acuti, umani, dinamici, folgoranti. Memorabile in tal senso la scena in cui Danny (tra i tre figli l'unico aspirante musicista e anche il membro della famiglia che ha avuto meno successo) recita, al padre che sta abbandonando, le formule imparate all’ospedale per riconciliarsi coi morenti. Danny zoppica vistosamente, acciacco cronico da cui non si vuole liberare, somatizzazione simbolica della sua condizione di subalternità, da cui non riesce a liberarsi. Le storie della famiglia Meyerowitz riguardano poi Matthew (Ben Stiller) un ricco e impegnatissimo uomo d’affari che comunica con il figlio solo via smartphone e Jean, alla ricerca della sua femminilità. Le loro storie erompono frammentate in episodi intervallati da quadri alla Wes Anderson. I tre Meyerowitz – ognuno emblema di nevrosi metropolitane tipicamente americane – hanno scelto vite diverse, ma nessuno dei tre è felice.
Il padre, perno su cui tutto si muove, è Harold (che ha avuto i due fratelli con due donne diverse) interpretato da Dustin Hoffman, scultore molto eccentrico che non è riuscito a diventare famoso quanto avrebbe voluto e che quindi spera nel successo dei figli. La trama anche qui è semplice, lineare: una famiglia che non comunica e che avrebbe bisogno di varie sedute di psicanalisi. In The Meyerowitz Stories non succede nulla e succede tutto, come in ogni film di Baumbach. C'è il bisogno di sentirsi accettati -verrebbe, infatti, da dire che non c’è niente di male ad essere mediocri, il tentativo continuo di annullarsi per diventare ciò che l’altro vuole; le conversazioni tra i personaggi sono in realtà monologhi in cui i capricci di uno trovano risposta nello scarso interesse dell’altro. La resa di questo aspetto caratteristico, presente in tutto il film è davvero fenomenale: spesso le scene vengono interrotte bruscamente da uno stacco di montaggio perchè non c'è l'interesse e la pazienza di ascoltarsi. E funziona, perchè dannatamente reale.

mercoledì 25 dicembre 2019

Pinocchio di Matteo Garrone. 2019

Una lezione filologica su Pinocchio e su Collodi, sul realismo crudo di un autore che aveva scelto di dipingere il fuoco nella casa di Geppetto perchè era così povero da non avere nemmeno legna da ardere, che aveva reso così bene la fame di Pinocchio da fargli mangiare anche le bucce delle pere che il padre aveva conservato per sè. Di questo romanzo abbiamo amato il viaggio di crescita impervio, che ha suggerito ai piccoli quanto fosse pericoloso non ascoltare e seguire gli insegnamenti dei grandi. La pedagogia di fine Ottocento del ribelle burattino senza fili, che è così buono da meritare di diventare un bambino vero. Questi particolari non si ritrovano nel film di Garrone, ma la povertà è presenza persistente, nella sua asciuttezza di poche parole e pochi vezzi estetici. È nei panni malconci e ingialliti di un Geppetto trasandato e spettinato, interpretato da Roberto Benigni, nei mezzucci e nello "spizzicare" del Gatto e la Volpe. In un padre che genera non con il sangue - come San Giuseppe con il Cristo (il riferimento ci sta, oggi è pur sempre Natale) sta la mostruosa prova attoriale di Roberto Benigni, padre per eccellenza, sofferente e buffo, con un forte richiamo ai classici maestri della povertà cinematografica: Charlie Chaplin e Buster Keaton.
Pare che lo stesso Collodi avesse, appunto, scritto Le avventure di Pinocchio per sbarcare il lunario, senza rendersi quindi conto che, invece, avrebbe per sempre cambiato la nostra cultura con l'incredibile potere iconografico delle sue scelte: l’immagine del naso che si allunga con le bugie, quella dell’asino come sinonimo di bambino svogliato, e quella del Paese dei Balocchi come luogo illusoriamente meraviglioso, l’etichetta de “il Gatto e la Volpe” per definire chi traffica affari loschi, e quella di “Grillo Parlante” per chi dispensa saggi consigli non richiesti. Collodi in realtà non crea, attinge molto dalla letteratura francese e inglese, da Fedro ed Esopo, le sue avventure sono imprecise, le cose accadono senza il minimo nesso logico, nella fiaba non c’è mai stata l’ombra di una coerenza interna. Non è richiesta, noi lettori non la vogliamo. Non si poteva chiederla a Garrone, l'opera è imperfetta in partenza, ma è diventata comunque un capolavoro mondiale. Sono dalla parte del regista, un testo sacro non va stravolto, cambiato, ho apprezzato e compreso la sua fedeltà, trovandovi tuttavia anche un tocco più visionario rispetto all' originale. No, non sono dalla parte dei detrattori, di chi bolla un'opera come la meno riuscita di un regista perchè sa tanto di "critico esperto" Noi alla fine abbiamo tutti applaudito e nell'abbraccio di Pinocchio diventato bambino e Geppetto sentito la magia del Natale.

domenica 1 dicembre 2019

Un giorno di pioggia a New York. Woody Allen. 2019

“Capitolo primo. Adorava New York, la idolatrava smisuratamente… No fammi cominciare da capo… Capitolo primo. Era duro e romantico come la città che amava. Dietro i suoi occhiali dalla montatura nera acquattata ma pronta al balzo la potenza sessuale di una tigre… No aspetta ci sono: New York era la sua città, e lo sarebbe sempre stata.” (Woody Allen, Manhattan – 1979)
Raccontare e celebrare ancora Manhattan, signor Allen? Ancora pioggia e financo nel titolo? Ancora registi depressi e psicoanalisi? Ancora una critica al perbenismo della ricca borghesia cittadina, alla sua falsità, all’arrivismo di provincia, ai rapporti umani che nascono dal profitto? Sono trascorsi 40 anni esatti. La risposta è solo: Si, Si, SI e come nei migliori amplessi: "Ancora, ancora e la preghiamo, non smetta!" Vogliamo per tutta la vita vedere in scena la malinconia e le nevrosi di un ipocondriaco, che ama smisuratamente le donne. La scelta migliore di sempre: la freschezza del protagonista Timothée Chalamet (il ragazzo con il volto più bello sulla faccia della terra) che ad un certo punto si mette a cantare Everything Happens to Me di Chet Baker al pianoforte. Impossibile non urlargli: “suonala ancora, Sam” Sguardo malinconico, figlio dei cieli grigi di New York, colto, tormentato, si innamora di Ashley così diversa da lui, più interessata alle luci della ribalta, senza una vera cultura e talento: si lascia scappare che Kurosawa è un grande maestro europeo. (!!!) Sceglie di chiamarlo Gatsby, perché sembra uscito proprio dal libro di Fitzgerald che raccontava che una donna la si può aspettare per sempre. Gatsby avrà il talento di saper, infatti, riconoscere e aspettare (sotto la pioggia) quella giusta. Ho letto molti commenti negativi sulla trama, considerata banale, scontata, il plot di Allen è, in fondo, sempre stato semplice e poco pretenzioso, ma perchè è solo la base su cui incastonareil resto: il piano bar, il fumo delle bische da poker, il jazz, l'umorismo tagliente, New York. E non è certo cosa da poco. E poi sul serio siete riusciti a seguire la storia in maniera lucida e critica senza perdervi sotto la pioggia scrosciante, sentendola addosso o guardandola attraverso l'ombrello trasparente di Gatsby? Se non siete irriverenti, pieni di tic e romantici, forse si, ci avrete badato. E poi lo dice lo stesso Allen verso la fine del film: “La vita reale è per chi non sa fare di meglio… “ <3 <3 <3 Buon compleanno, maestro!

Coming Soon