sabato 29 dicembre 2018

Capri-Revolution di Mario Martone. 2018

Una comune di artisti e giovani -capitanata da un guru bello, biondo e americano che sembra Jesus Christ Superstar- vive tra le montagne di Capri all’alba della prima guerra mondiale. Una pastorella del posto entra in contatto con il sopracitato guru vegetariano/utopista/ecologista/nudista/spiritualista orientale e finisce per scoprire se stessa in quanto donna non più soggetta ai padroni maschi di casa (i due fratelli maggiori) L’aspetto più interessante di Capri-Revolution è il legame con Noi credevamo e Il giovane favoloso, cioè la necessità di riflettere sul Tempo e la Storia. Nel raccontare gli eventi che anticiparono e seguirono il Risorgimento, Noi credevamo tracciava una riflessione sul tradimento della lotta partigiana nella società post-costituente; e Il giovane favoloso oltre a trasformare in immagini la biografia di Giacomo Leopardi, ce lo infiocchetta come se si trattasse di un esponente della cultura punk di fine anni Settanta. Qui, invece, Martone si concentra sul fallimento dell'utopia sessantottina: il pittore Karl Wilhelm Diefenbach creò sul serio una comune a Capri nei primi del Novecento, anticipando gli hippie. Troppa carne al fuoco: Lucia e la sua rivalsa di contadinella analfabeta , il conflitto culturale tra la comune e la cittadinanza, i rivoluzionari russi esuli che stanno preparando il 1917, l'arrivo dell'elettricità sull'isola, il papà di Lucia che si ammala in fabbrica, il pacifismo di Seybu, l’interventismo socialista del medico, la Grande Guerra. Temi rispettabilissimi e degni di nota, ma il regista insiste ossessivamente sulle pratiche naturiste dei membri della comune, che vagano nudi per gli scogli, improvvisando coreografiche. Troppe, estenuanti.
E l'erotismo? La carne? La materia? Questo film non ha pancia, non trema, è didascalico, spiega e suggerisce risposte, esce fuori solo l’innamoramento di Martone per ciò che fa, per come posiziona la macchina da presa, per come crede di esplorare un grande messaggio, ma che poi non arriva mai. Unico dialogo ben scritto lo scambio di vedute tra Seybu e il dottore sul concetto di rivoluzione, in cui vengono messi alla berlina entrambi gli estremismi: il dogmatismo interventista da una parte e quello isolazionista dall’altro. Il film ha tante piccole rivoluzioni inesplose, l'unica miccia che prende fuoco è la storia personale della pastorella Lucia (Marianna Fontana), che imparara a leggere e a parlare in inglese. Incredibile il suo volto estremamente cinematografico e di un bellezza disarmante. Non si riesce a toglierle gli occhi di dosso. D'effetto la chiosa: un'anfora cade, la guerra è cominciata, simbolo di una scossa tellurica che annuncia una nuova epoca, è l'addio a un equilibrio. E bellissime le parole della mamma di Lucia: "ho sempre saputo com'eri Lucia, ti ho sempre sentita scappare di notte. E anche io avrei voluto essere là, con te".

giovedì 20 dicembre 2018

Bohemian Rhapsody di Bryan Singer. 2018

Chi ama Freddie Mercury è sicuramente un pignolo all’ennesima potenza. Non avrà amato Bohemian Rhapsody, che suscita emozioni si, ma solo perchè è la voce di Freddie a farci venire i brividi. Non posso cassare questo importante tributo e non lo farò, -anche se da amante del cinema dovrei- quindi m soffermerò solo sulla storia di questi quattro musicisti che hanno scardinato in maniera elegante e teatrale il concetto di rock. Si, ci siamo commossi tutti con questa pellicola non neghiamolo, occhi lucidi in sala a non finire, perchè abbiamo sentito nostalgia, i Queen ci mancano da morire, senza girarci troppo intorno. E quindi abbiamo perdonato i baffi a Freddie nel ’77, quando lui li portava, in realtà, negli anni Ottanta; come la scoperta di quella maledetta malattia che se lo è portato via, collocata poco prima del Live Aid, quando in realtà si presume sia avvenuta dopo. Un discografico di strette vedute dice al giovane Freddie Mercury che un singolo radiofonico di sei minuti (Bohemian Rhapsody) è sconsigliabile perché dura una vita: “mi dispiace per tua moglie se pensi che sei minuti siano una vita” risponde il non ancora famoso Freddie. In questa scena è contenuto tutto il valore celebrativo con cui il film omaggia il nostro amato : la sua prontezza da performer e lo sconfinato talento tendente alla megalomania. Bohemian Rhapsody fa decisamente il suo dovere, che non è quello di essere onnicomprensivo e nemmeno obiettivo. Ci fa respirare Freddie per qualche minuto. E noi non chiedevamo niente di meglio.
Per il resto è solo tutto un gran pugno nello stomaco. (di ricordi, immagini e sensazioni) Ma voi siete riusciti a non cantare a squarciagola in sala con le mani alzate? Mettete Rami Malek in cima alla lista dei favoriti per l’Oscar, per favore.

domenica 16 dicembre 2018

Santiago, Italia, di Nanni Moretti. 2018

«Oggi viaggio per l’Italia e vedo che l’Italia assomiglia sempre di più al Cile, nelle cose peggiori del Cile. Questa cosa di mettersi in questa società di consumismo terribile, dove la persona che hai al fianco non te ne frega niente, se la puoi calpestare la calpesti. Questa è la corsa: l’individualismo».
Cile. Per la prima volta nella storia dell’intera America Latina, l’ingresso nel Palacio de la Moneda è di un presidente marxista. Medico, leader di Unidad Popular, amico e compañero di Pablo Neruda. Quel sogno «umanista e democratico» di Allende che ci ha reso appassionati, come quell' infuocato comizio di Salvador Allende in cui, profeticamente, annuncia che lascerà la Moneda «soltanto crivellato di colpi». Moretti ce lo ricorda, lo fa fra le case e le testimonianze di quei rifugiati che, all’indomani del golpe del ’73, qui trovarono asilo. Diplomatici, registi, artigiani, militari, dottori, asilados sulla propria pelle, che si commuovono e ricostruiscono la loro storia. Vera, di pancia, la dettagliata descrizione dello sforzo di dover scavalcare il muro dell’ambasciata italiana per chiedere asilo politico (per il quale, raccontano, ci si allenava apposta). Tutto condito con freschezza e leggerezza, anche quando una donna ricorda di aver chiesto a uno dei suoi aguzzini di smetterla di strapparle il nastro adesivo incollato sugli occhi, perché «magari mi ammazzano, ma almeno avrò ancora le ciglia!» Santiago, Italia parla di vita, non di morte. parla di dignità, di chi ha capito che doveva ricostruire e non piangersi addosso. Pellicola intelligente, sensibile, di taglio classico ma anche tagliente. Soprattutto quando, nella seconda parte, celebra i migranti cileni accolti come si accoglie l’essere umano, niente di più, contro l’Italia di adesso, quella del “prima noi”, di quelli che vogliono la corsia riservata e si sono messi a fare sistema. Di quelli che twettano e si fanno i selfie. Un ex-militare incarcerato, invoca imparzialità «perché lei non è un giudice né un prete», Moretti, fino a quel momento quasi assente, passa davanti alla macchina da presa e si rivolge all’interprete fuori campo: «Io non sono imparziale, lo traduca». Imparziale certo, ma avrei voluto sentir usare la parola "antifascismo", è per l'antfifascismo che i rifugiati cileni trovarono ospitalità in Italia; è in nome della comune lotta antifascista che tutti i partiti dell’epoca (dai repubblicani ai democristiani ai comunisti, come ricorda uno dei testimoni) decisero di non riconoscere il governo dittatoriale di Pinochet; ed è stato (anche) grazie a una diffusa cultura antifascista che i rifugiati godettero del supporto e della vicinanza della popolazione comune – e non solo nelle regioni “rosse” – nonostante quegli anni fossero tutt’altro che facili, anche nel nostro Paese. E viene nostalgia. Di un tempo che non ricordo, non conosco, in cui si era uniti, solidali. Umani.

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