domenica 12 agosto 2012

La guerra è dichiarata di Valérie Donzelli. 2011

"Ho paura che nostro figlio nasca cieco, sordo, muto, nano, di colore, omosessuale e che voti Fronte Nazionale!"
Movimento. azione. Come nel titolo: una guerra dichiarata. Tra una coppia di giovani innamorati e un tumore al cervello al loro piccolo nato. La storia personale di Valérie Donzelli raccontata con una modalità del tutto nuova e originale che quasi vi infastidirà. Una tragedia dal gusto pop che racconta la morte ma canta e balla la vita sul palcoscenico fatto di corsie d'ospedale dove correre fino a svenire. E dove una coppia innamorata finisce per deteriorarsi. Il film mette, infatti, in scena attraverso quest'atroce dramma l'immaturità sentimentale dei ventenni e trentenni, che dell'amore preferiscono il lato ludico e spensierato. E si denunciano inoltre le difficili situazioni economiche in cui ci troviamo, dove per assistere il proprio figlio malato si è costretti a vendere la casa appena acquistata. E la Donzelli usa la leggerezza, la libertà, esorcizzando i momenti più terribili di questo calvario che i genitori vivono con risate isteriche e feste con musica assordante e drink. Non si puo'impazzire di dolore, la prosecuzione della specie ci ordina di sopravvivere. Unica pecca: Troppe voci fuori campo che spiegano scene palesemente comprensibili e fuori luogo gli attori che cantano il loro amore reciproco. L'anticonformismo a tutti i costi non ci piace. Valèrie nelle vesti di regista, attrice e sceneggiatrice e il suo ex nelle vesti di attore aggiornavano costantemente una sorta di diaro di bordo sulla malattia del loro vero figlio Gabriel, anche lui nei panni di se stesso nelle ultime battute quando ormai è guarito. Da questi sfoghi di scrittura prende avvio quindi la pellicola, ed è come se i protagonisti si facessero bambini e raccontassero al loro piccolo con il suo elementare linguaggio ciò che accade: niente patimenti e lacrime, incursioni di metastasi che si aggravano come un disegno astratto colorato dal bambino. Non c'è la volontà di tirare lo spettatore nell'angoscia: il film comincia con Adam (Gabriel)ormai guarito, piuttosto dimostare che anche loro, figli di un'immatura e viziata generazione e immaturi loro stessi possano farcela, nonostante tutto. Romeo chiede a Giulietta: «Perché proprio ad Adamo doveva capitare questa malattia?». «Perché siamo in grado di superarla», è la sua risposta.

sabato 11 agosto 2012

“L’amante” di Jean-Jacques Annaud. 1992

Indocina anni 30. Un affascinante trentaduenne cinese (nel libro erano 27) si innamora di una quindicenne francese che si trova nel Vietnam francese per motivi di studio. Lui è ricco, non lavora, ha un pied-à-terre, "la stanza dello scapolo" che diventerà il teatro della loro passione. Lei è bellissima: indossa un vestito di seta indigena di un bianco ingiallito; in testa ha un cappello da uomo in feltro a tesa piatta bordato da un nastro nero e indossa scarpe scalcagnate da ballo in lamè nero con qualche strass. Non ha ancora avuto esperienze sessuali, salvo abbracci intimi con una sua compagna di scuola sotto la zanzariera del dormitorio, però di esperienze vorrebbe averne, le importa poco che una ragazza non vergine non la sposi nessuno. Il cinese è timido nell'appproccio anche perchè folgorato dalla sua bellezza, lei lo incoraggia, baciando il vetro dell'auto ad occhi chiusi, quando lui viene a prenderla a scuola. Marguerite Duras la sa lunga. Il suo omonimo romanzo dal quale il film è tratto è tra le pagine più belle che abbia mai letto, una scrittrice efficace che però ha disconsciuto questa versione filmica. Sono d'accordo: una passione estetica, patinata, molto più ferina, violenta e primordiale quella che sgorga dalle pagine della Duras. Un erotismo che qui non è vera sensualità, una grande opera letteraria che qui perde il suo grunge artistico. I problemi nel rapporto con la madre e con il fratello oppiomane, il fratello minore con problemi mentali, sono tratti autobiografici della vita della Duras, questa relazione con quest'uomo adulto " e cinese" sarà stata di sicuro molto contrastata, ma non c'è nulla che davvero stupisca in questa film. Sentimenti accesi che invece sgorgano quando la Duras scrive la sceneggiatura di Hiroshima, mon amour, nell'amore tra l’attrice francese e l'architetto giapponese cinque anni dopo Hiroshima. L'amore tra la giovane e il cinese esplode su un traghetto che attraversa il fiume Mekong diretto alla città di Saigon, lui ne rimane folgorato, lei un po'in cerca della passione e di una sicurezza decide di diventare la sua amante. L'esistenza della quindicenne è insopportabile e quegli incontri fugaci diventano per lei momenti di vita. I soldi. La richiesta incessante di soldi. Lei si perderà nei meandri delle pecche economiche della sua famiglia, non scorgendo l'amore. Che però rimarrà indelebile per tutta la vita. Il trentenne cinese come da tradizione ha un matrimonio combinato che lo attende e quindi la sua amante bambina lascia per sempre l'Indocina per tornare in Francia, dove anni dopo, quando sarà diventata una scrittrice comprenderà che in quei momenti di passione si celava il senso di tutto. Aveva una famiglia da aiutare, ma quando può dire a sé stessa la verità, questa zampilla: lo ha amato anche lei. Trent'anni dopo, divenuta scrittrice molto nota, sposata e divorziata, riceverà una telefonata. E' il cinese, che è a Parigi con moglie e figli, le dice soltanto che ha continuato ad amarla sempre allo stesso modo. Lei non risponde. Ancora una volta. Ha finto di essere un'amante perchè era l'unico modo possibile per amare un uomo così lontano in tutto da lei. Ma l'amore è una forza prorompente non ha ostacoli. Si crea alibi, situazioni degradanti, disperate. Purchè viva, esista.

sabato 4 agosto 2012

L'uomo nero di Sergio Rubini. 2009

"Io non voglio essere come mio padre".
San Vito dei Normanni. La mia Puglia. La Puglia di Rubini. Ancora una volta nei panni di regista e attore. Un ospedale e un padre morente e al capezzale Gabriele, tornato al paese dopo anni per occuparsi del genitore, ricorda la sua infanzia: la sua famiglia e l'ossessione del padre per la pittura. Ernesto (Sergio Rubini)è un capostazione- pittore mancato ("...Mio padre non mi volle mandare al liceo artistico e guarda che vita di merda che faccio."). Non ha studiato, non ha "la carta" e quindi viene svilito dalla falsità e dal pregiudizio di certe “caste” culturali di paese che rivendicano la cultura come loro dominio esclusivo. Realizzare la copia perfetta di un Cézanne. Questo l'obiettivo principale. Quello più importante che lo porterà a smascherare chi nella vita è davvero la copia di qualcosa o qualcuno. A discapito della sua famiglia: moglie, figlio...Gabriele, infatti, odia questo padre che è solo un'ombra che incombe cattiva nella sua vita, un uomo nero e si affeziona allo zio materno che vive con loro: Pinuccio (Riccardo Scamarcio)uno scapolone che si gode la vita, ma alla fine anche lui "vittima del sistema". Influenzato dalla madre Franca (Valeria Golino), che parla nei sogni con le buonanime dei suoi genitori, Gabriele comincerà a sviluppare una fervida fantasia messa su pellicola con scene suggestive e bellissime. In un contrasto tra finzione- realtà che è la base su cui prende avvio l'intera vicenda. Le migliori, a mio avviso, le scene in museo in cui gioca con il fantasma del pittore francese Paul Cézanne, che rende questa pellicola-omaggio alla terra natale, in pò come Tornatore con Baaria, una surreale recita teatrale. Però ben riuscita.

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