“Mi accorgevo di avere la pelle d’oca. Senza una ragione, dato che non avevo freddo. Era forse passato un fantasma su di noi? No, era stata la poesia. Una scintilla si era staccata dal poeta e mi aveva dato una scossa gelida. Avevo voglia di piangere; mi sentivo molto strana.Avevo scoperto un nuovo modo di essere felice.” (Sylvia Plath)
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martedì 20 dicembre 2016
The Housemaid di Im Sang-soo. 2010
Il film si apre con la protagonoista che osserva una sagoma sull’asfalto e le tracce di sangue lasciate qualche ora prima dal corpo esanime di una ragazza che si era suicidata buttandosi da un palazzo. Quasi una visione rivelatrice.
Come suggerisce il titolo (e come sanno bene quelli che hanno visto l'originale) al centro della storia c'è una domestica, Eun-yi, la bellissima Jeon Do-yeon (전도연), attrice superlativa.
La giovane viene assunta come aiutante dalla signora Cho, governante nella casa del ricchissimo signor Hoon, che ha un debole verso la ragazza e, complice anche l'avanzata gravidanza della consorte, la seduce.
Fin quando la giovane scopre di essere anche lei in dolce attesa.si trova contro l'intera famiglia che vuole farla abortire (con tutti i mezzi); soprattutto la suocera, una MILF paurosa -si stenta a credere sia la madre- vero e proprio diavolo che a costo di mantenere sua figlia in quella gabbia d'oro è pronta a tutto; odierete moltissimo la vecchia governante che solo apparentemente pare personaggio positivo, mentre in realtà è più subdola di quello che sembra.Euny è l'incarnazione della purezza, l'unico personaggio veramente libero, la sola che non si sottomette mai, che reagisce a quanto gli viene fatto. La sua vendetta è sottile, atta ad arrecare un danno non fisico ma psicologico.
Non è un capolavoro, nonostante io adori i film coreani e non riesco mai a non essere di parte, ma alcune sequenze sono straordinarie: su tutte quella con lui fermo alla soglia di quelle due stanze, da una parte la moglie incinta simbolo estremo di stabilità familiare e "conformismo", dall'altra la domestica che pulisce il bagno con quelle gambe pericolosamente mostrate, simbolo di possibile trasgressione e fuga alla routine. Che fascino!!
Sublime colonna sonora, vale da sola la visione del film.
sabato 13 febbraio 2016
Moebius di Kim Ki-duk. 2013
In scena il sanguinoso e muto triangolo Madre-Padre-Figlio. Camera a mano e stacchi netti e l'ombra dell'operatore che entra talvolta nell'inquadratura traballante.
Sgradevole sensazione (voluta) di un film improvvisato, tecnicamente trascurato, un po' buttato lì, come viene, viene.
Tutto si chiude con un riferimento al buddismo, che sembra sposare una soluzione ascetica allo scatenarsi della follia indotta dalle perversioni sessuali.E’ la traccia fantasma del disco/filmografia, quella che spaventa, piena di distorsioni e sferragliamenti, senza sovrincisioni in studio, la versione raw and uncut che pochi vogliono ascoltare (vedere).
venerdì 19 ottobre 2012
Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera di Kim Ki-Duk. 2003
“Finché dura lo spazio, finché permangono gli esseri senzienti, che io possa vivere per scacciare la sofferenza dal mondo”
Un monaco buddista e il suo giovane discepolo vivono in una casetta galleggiante su un lago in Corea, simbolo del distacco dal mondo. Il film è diviso nella rappresentazione delle quattro stagioni, più una che rappresentano l'iniziazione alla vita e all'illuminazione. Fin quando l'arrivo di una ragazza scombina i sentimenti del discepolo..."Il desiderio crea dipendenza, e la dipendenza porta pensieri di morte”, dichiara, infatti, il maestro al suo giovane allievo innamorato in uno dei pochissimi dialoghi della pellicola. Il mondo esterno ha fatto dei desideri la sua unica ragione di vita. Questa la critica del maestro. Ma "non è colpa tua" consola la voce del maestro, ogni stagione ha le sue tentazioni ed è umano cedervi, compito del maestro sarà proprio mostrare al suo allievo ogni volta la strada per la redenzione, tramite anche il dialogo con cui accoglie il ragazzo appena tornato: “Dunque sei tornato. Sembri sconvolto, per quale motivo?” – “Io la odio, quella puttana!!! Ha detto di amare solo me, e poi ha trovato un altro uomo!!!” – “E tu che diritto hai di considerarla tua? Non può forse qualcun altro provare per lei quello che provi tu? La vita è trovare, e imparare a rinunciare a ciò che si è trovato.”
Fin quando il lago si ghiaccia e arriva l'inverno. La poesia delle porte che dividono ambienti già aperti: non esistono infatti pareti. Il bello di Kim Ki-Duk che piace e convince anche quando non lo si capisce. Anche quando è semimuto come in questo caso. Perchè è bello.
Il primo quadro è la Primavera, l'età della scoperta, dell'innocenza, che nel caso dell'allievo è però crudele: lega con un sasso un pesce, una rana e un serpente. Il monaco lo segue ed osserva e il mattino dopo lega a sua volta un sasso alla schiena del ragazzo, per liberarsene dovrà ripercorrere a ritroso il cammino fatto nel giorno precedente e liberare gli animali, avrà la libertà quando l'avrà restituita: “Se anche una delle creature che hai torturato muore, porterai nel cuore un peso per tutta la vita”. Sarà questa la sua prima lezione in assoluto. Poi verrà l'Estate con il tormento della carne: l'adolescenza. Una ragazza giunge al monastero perchè malata: “Quando la sua anima raggiungerà la pace, solo allora il suo fisico ritroverà la vita”. E la ritrova tra le braccia del giovane che poi la seguirà quando lei una volta guarita andrà via. E quel microcosmo protettivo che aveva fino a quel momento fatto da casa all'allievo verrà oltrepassato. L'autunno sarà la stagione della violenza: “Non sapevi che fosse così?” sembra rimproverarlo il monaco che per espiare le sue colpe lo percuote, lo lega e lo obbliga ad incidere sul pontile del tempio il Sutra, seguendo i suoi gesti: scrive a sua volta utilizzando la coda di un gatto. Fin quando non sopraggiungono i due poliziotti per arrestarlo ma finiranno per colorare le incisioni del giovane che intanto continua a scrivere per tutta la notte. L'allievo verrà condotto via. E sopraggiunge così l'Inverno, stagione dell'espiazione, stagione in cui una giovane madre si recherà al tempio per lasciare il suo giovane figlio lì e far si che il ciclo della vita si ri.compia, per questo "sarà di nuovo Primavera": un nuovo bambino sarà pronto ad affrontare il percorso.
“Finché dura lo spazio, finché permangono gli esseri senzienti, che io possa vivere per scacciare la sofferenza dal mondo”
giovedì 16 giugno 2011
Ferro 3. La casa vuota di Kim Ki-Duk. 2004
"Siamo tutti case vuote
e aspettiamo qualcuno che apra la porta e ci renda liberi.
Un giorno il mio desiderio si avvera.
Un uomo arriva come un fantasma e mi libera dalla mia prigionia.
E io lo seguo, senza dubbi, senza riserve...
Finché incontro il mio nuovo destino."
Ferro 3 è una mazza da golf, sia simbolo del film e sia strumento dalle molteplici funzioni e chiavi di lettura della pellicola come l' amore, la morte, la rabbia, la libertà e la fuga. Anche se mai come in questo caso, il film andrebbe sentito, assaporato e non letto. Tae-suk, il protagonista, non è identificabile, perchè è pieno di identità, balza da una casa all'altra, indossando polimorficamente i panni degli altri, sventendosi della propria anima per abbracciare quelle altrui. Non vuole rubare, nè spiare, nè scappare, nè appropiarsi di ciò che trova transitando per poche ore nelle abitazioni prescelte. Forse cerca la pace o forse vuole donarla, una sorta di angelo con la missione di portare sollievo, riempire uno spazio vuoto fino a che trasbordi di amore. E così cura anche se stesso. Fin quando incontra gli occhi di lei che più degli altri andrebbero salvati. La ragazza è, infatti, vittima della violenza del marito.
Come ricordo delle sue incursioni, il giovane crea una galleria fotografica dove s'immortala con foto dei veri abitanti, accanto ai loro oggetti quotidiani, surrealismo e fantasia pura soprattutto nei suoi siparietti in carcere che culminano in un criptico occhio stampato sul palmo della mano. E il tutto nella più totale assenza di parole, comunicando attraverso i gesti e gli sguardi, imparando ad amarsi piano, condividendo tutto il resto, prima ancora del corpo. Il luogo fisico della Casa, dimora di una borghesia ipocrita e violenta (incarnata dall'amante violento della donna), è finalmente dominato dall’uomo che riempie di significato le parole vuote coi suoi silenzi e sguardi, salvo un significativo Ti amo pronunciato da lei verso la fine.
La sensazione finale è quella di un film anarchico, o meglio di personaggi anarchici che rifiutano qualsiasi soluzione basata sulla comunicazione, sul dover dare delle spiegazioni, in una totale assenza di fiducia negli esseri umani.
Realtà o sogno? Potenza del cinema, ma a volte anche della stessa vita. E come recita la frase a fine film: "...è difficile dire se il mondo in cui viviamo è sogno o realtà"
e aspettiamo qualcuno che apra la porta e ci renda liberi.
Un giorno il mio desiderio si avvera.
Un uomo arriva come un fantasma e mi libera dalla mia prigionia.
E io lo seguo, senza dubbi, senza riserve...
Finché incontro il mio nuovo destino."
Ferro 3 è una mazza da golf, sia simbolo del film e sia strumento dalle molteplici funzioni e chiavi di lettura della pellicola come l' amore, la morte, la rabbia, la libertà e la fuga. Anche se mai come in questo caso, il film andrebbe sentito, assaporato e non letto. Tae-suk, il protagonista, non è identificabile, perchè è pieno di identità, balza da una casa all'altra, indossando polimorficamente i panni degli altri, sventendosi della propria anima per abbracciare quelle altrui. Non vuole rubare, nè spiare, nè scappare, nè appropiarsi di ciò che trova transitando per poche ore nelle abitazioni prescelte. Forse cerca la pace o forse vuole donarla, una sorta di angelo con la missione di portare sollievo, riempire uno spazio vuoto fino a che trasbordi di amore. E così cura anche se stesso. Fin quando incontra gli occhi di lei che più degli altri andrebbero salvati. La ragazza è, infatti, vittima della violenza del marito.
Come ricordo delle sue incursioni, il giovane crea una galleria fotografica dove s'immortala con foto dei veri abitanti, accanto ai loro oggetti quotidiani, surrealismo e fantasia pura soprattutto nei suoi siparietti in carcere che culminano in un criptico occhio stampato sul palmo della mano. E il tutto nella più totale assenza di parole, comunicando attraverso i gesti e gli sguardi, imparando ad amarsi piano, condividendo tutto il resto, prima ancora del corpo. Il luogo fisico della Casa, dimora di una borghesia ipocrita e violenta (incarnata dall'amante violento della donna), è finalmente dominato dall’uomo che riempie di significato le parole vuote coi suoi silenzi e sguardi, salvo un significativo Ti amo pronunciato da lei verso la fine.
La sensazione finale è quella di un film anarchico, o meglio di personaggi anarchici che rifiutano qualsiasi soluzione basata sulla comunicazione, sul dover dare delle spiegazioni, in una totale assenza di fiducia negli esseri umani.
Realtà o sogno? Potenza del cinema, ma a volte anche della stessa vita. E come recita la frase a fine film: "...è difficile dire se il mondo in cui viviamo è sogno o realtà"
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