“Mi accorgevo di avere la pelle d’oca. Senza una ragione, dato che non avevo freddo. Era forse passato un fantasma su di noi? No, era stata la poesia. Una scintilla si era staccata dal poeta e mi aveva dato una scossa gelida. Avevo voglia di piangere; mi sentivo molto strana.Avevo scoperto un nuovo modo di essere felice.” (Sylvia Plath)
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martedì 21 giugno 2016
Ho Ucciso Napoleone di Giorgia farina.2015
«tutte le volte che esco con un uomo penso se è lui il padre con cui voglio che i miei figli trascorrano due weekend al mese»
Il primo film di Giorgia Farina è Amiche da morire, ed è un piccolo gioiello di scrittura di Fabio Bonifacci. Ho Ucciso Napoleone ,invece, è una sceneggiatura scritta dalla stessa Giorgia Farina (aiutata da Federica Pontremoli) molto più nonsense.
Una commedia pulp, dall'umorismo inglese, che, porta Anita (addetta alle risorse umane in una casa farmaeutica) a ritrovarsi, seduta sull'altalena di un parco giochi, licenziata in tronco e incinta del suo capo Paride alias Adriano Giannini, sposato padre di famiglia di cui è amante clandestina, ma anche che la conduce con glaciale freddezza a pretendere che tutto torni come prima, inclusa la libertà di non impegnata sentimentalmente senza figli.
Non male la prima parte, meno la seconda chesconfina troppo nel surreale, per poi arrivare ad una salomonica conclusione con Anita riassunta in azienda e (apparentemente) di nuovo legata al suo capo. Biagio, una volta scoperte le sue malefatte, fugge all’estero e riesce a farsi assumere a Parigi da un’altra azienda (ignara della sua vera personalità).
Il titolo riprende un’azione compiuta da Anita nel corso del film: non sapendo cosa farsene, uccide Napoleone, il pesce rosso che le è stato temporaneamente affidato da una bambina che vive con la propria famiglia nell’appartamento accanto al suo.
giovedì 23 aprile 2015
Mia Madre di Nanni Moretti. 2015
“Perché fate sempre quello che dico? Il regista è uno stronzo, a cui voi permettete di fare tutto!”
La storia dell'elaborazione di un lutto vero, la morte della madre, Agata Apicella, professoressa di lettere al ginnasio, scomparsa nel 2010 durante il montaggio di "Habemus Papam". L’attore è a fianco e non dentro il personaggio, così Margherita Buy diventa qui il doppio di Nanni Moretti, lui, nei panni di se stesso è la parte saggia, moderata, calibrata, l'altra femminile è più nevrotica e confusionaria. Margherita è Nanni Moretti, è il Nanni Moretti sofferente che proietta se stesso continuamente in ogni personaggio, ma che profondamente teme se stesso. Ottima Margherita Buy, la sua migliore interpretazione, Moretti è, invece, Giovanni, il fratello pacato di Margherita, ma il film rimane emotivamente privato, è "sua" madre che muore e per quanto sia un taglio al cordone ombelicale per tutti, non si sente la sofferenza personale. Moretti non voleva farci piangere, questo è sicuro, non avrebbe mai puntato su una scleta così banale e facile: il consenso tramite il sentimentalismo, la pornografia dei programmi mediaset. Il dolore vero è laterale, hai troppo pudore per far vedere che ti ha dilaniato il cuore. Ma una bolletta che non si trova diventa quell'escamotage in cui poi dare sfogo alle lacrime, tanto che un appartamento si allaga e i quotidiani (il quotidiano, il ricordo) non assorbono nulla.
Tu dirigi un film e tua madre fuori dal set sta morendo, Giovanni lascia il lavoro, lui è un bambino, non si sente affatto "troppo vecchio per trovarne un altro". Il dolore è sottrazione, "mi si nota di più se alla festa non ci vado?"
Diversamente dal fratello, Margherita non smette di lavorare, ma, pur avvertendo l'inautenticità del suo film, si limita a piccole insofferenze come quella verso il trucco degli attori, critica il loro aspetto fisico, poco vero.
Nel disagio che si avverte sul suo set si sente il cattivo sapore del cattivo cinema, un cinema che non riesce più a cogliere la realtà, né a dire il vero. Lei alla conferenza stampa non sa cosa dire, recita.
"A cosa pensi", dice la Buy alla madre, sul letto di morte. "A domani", risponde lei.
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sabato 21 marzo 2015
Vergine Giurata di Laura Bispuri. 2015
“la capra è l’animale più bello che c’è, dopo la donna”
Gocce di innevata pioggia cadono tra i boschi, muovendo le foglie. Tutto è immobile. Anche l'umano. Soprattutto se femmineo. A loro non è permesso uscire da sole, non è permesso parlare prima degli uomini, bere prima degli uomini, sparare e cavalcare. Rinunciare all'amore e al piacere di essere toccata, perchè non sempre essere donna coincide con libertà. Sarò l'amante di me stessa, una vergine e vestirò i panni di un uomo. Fasce ben strette ad appiattire il seno, capelli corti, vestitio molto larghi, boxer maschili.Tale pratica vige ancora nelle zone più arretrate dell’Albania, soprattutto al nord. Diventando una vergine giurata, secondo tale arcaica cultura, alla donna vengono riconosciuti i diritti posseduti solo dagli uomini in una società a tutt’oggi maschilista e retrograda. Così Hana, trovatella, cresce sui monti albanesi e attraverso il Kanun, si fa uomo e prende il nome di Marc.
Una poesia a bassa voce, sussurrata, mentre Hana/Marc ha dentro un grido che rivendica vita al bordo di quella piscina scivolosa, in cui Hana guarda senza mai cadere.
Perfetta Alba Rohrwacher nella sua fisicità che rende benissimo il passaggio uomo-donna e per quell’eleganza che regala ad ogni suo personaggio. La pellicola tenta la trasmissione di un messaggio universale sulla condizione della donna, ma paradossalmente riesce a funzionare solo nelle scene dedicate alla storia.
P.S. Mai seguire l'istruttore di nuoto in bagno
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venerdì 29 agosto 2014
La fine è il mio inizio (Das Ende ist mein Anfang) di Jo Baier. 2011
"L'immagine che mi viene in mente quasi ogni giorno è quella di un monaco zen che si siede nella sua cella, prende un bel pennello, lo intinge nel mortaio dove ha sparso la china e con grande concentrazione fa un cerchio che si chiude. Ma un cerchio non fatto con il compasso. Un cerchio fatto con l'ultimo gesto della mano su questa terra. La vita si conclude... è questo il cerchio che ora io cerco di chiudere."
Tiziano Terzani
La biografia di Tiziano Terzani raccontata non da un cineasta italiano, ma tedesco, italiani che invece ci propinano storie di chiunque in televisione.
Nato nel 1938 in una famiglia povera della periferia di Firenze, Tiziano Terzani è stato un giornalista, pensatore e viaggiatore degli anni Sessanta e Settanta, in luoghi - come la Cina- che erano ancora più inaccessibili e lontani di come li conosciamo oggi. Il suo sguardo attento e smaliziato ha contribuito a far conoscere al pubblico italiano, ma non solo, la realtà di conflitti come la guerra del Vietnam, o di stati chiusi come la Cina che sembravano irraggiungibili e inafferrabili.
La fine della sua carriera giornalistica è poi coincisa con la scoperta di un cancro, il film si concentra sulla lenta e consapevole accettazione dell’avvicinarsi inesorabile della morte e del disfacimento del suo essere corporale.
Nei panni del figlio Fosco il nostro Elio Germano, difficile avere un padre come Tiziano Terzani; Fosco registra gli ultimi dialoghi col padre in un racconto che assomiglia a una confessione pronta per diventare un libro (che poi sarà il suo ultimo bestseller).
Pochissime scene e tantissimi dialoghi come c'è da immaginarsi, girato nelle campagne toscane, nei veri luoghi di Terzani. Eppure, riconoscendo il coraggio e i buoni propositi di un tributo a Terzani, il film ha qualcosa che non funziona e risulta confuso e superficiale. Forse sarebbe stato meglio un documentario con inediti veri su Terzani, perché offrirne un quadro così confuso, superficiale e scollegato?Se sulla lapide di Terzani è incisa la parola “Viaggiatore”, perché relegare il tema del viaggio a qualche accenno? Perché non riproporre una struttura a capitoli come nel libro, che rende accessibile il pensiero dell’autore, ma presentare i contenuti in flusso disordinato?
Scene inutili: la scena della patata bollita che lui non riesce a mangiare, il finto litigio col figlio, l’arrivo in paese in macchina e il suo fingere di dormire. Salviamo la scoperta finale di questo suo viaggio, cioè che la cura non esiste, la morte è la naturale conseguenza della nascita e bisogna quindi accettarla come tale. "Perché il morire ci deve fare così tanta paura? Ma come, è la cosa che hanno fatto tutti prima di noi!".
Per udire parte della cose dette in questo film e molte altre direttamente dalla voce di Tiziano, è consigliabile la visione del film-documentario "Anam, il senzanome" di Mario Zanot, che riporta l'ultima intervista a Tiziano ormai ritiratosi ad Orsigna.
"L'inizio è la mia fine e la fine è il mio inizio. Perché sono sempre più convinto che è un'illusione tipicamente occidentale che il tempo è diritto e che si va avanti, che c'è progresso. Non c'è. Il tempo non è direzionale, non va avanti, sempre avanti. Si ripete, gira intorno a sé. Il tempo è circolare. Lo vedi anche nei fatti, nella banalità dei fatti, nelle guerre che si ripetono."
Tiziano Terzani
giovedì 20 giugno 2013
Romanzo di una strage di Marcotullio Giordana. 2012
Io so. Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969 [...] Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero
(Pier Paolo Pasolini, Corriere della Sera, 14 novembre 1974)
Una verità che esiste. Come non potrebbe esistere? Ma nessuna condanna definitiva c'è mai stata e ogni accusato è stato assolto. E la giustizia? "Insabbiare gli escrementi come fanno i gatti". Questo sembrano fare gli uomini di Stato.
Autunno caldo, rivolte studentesche, i lavoratori in tumulto. Così si apre il film. Ricostruita impeccabilmente la storia tragica del compagno Pinelli (un Favino che sbalordisce per la perfezione. Recita perfettamente in qualsiasi dialetto), spiegati con minuzia di particolari i movimenti di Valpreda e del suo sosia Sottosanti. Un connubio tra Stato e terrorismo, con il ruolo vano ma salvifico di Moro.
Un'opera didattica in cui manca però la voce sociale di chi all'epoca già capiì perfettamente tutto quello che veniva taciuto. Chi uccise il commissario Calabresi? Il regista descrive, ma non va alla ricerca della verità come invece ci si aspetta da un film di argomento civile. Non aspettatevi dunque una pellicola d'inchiesta (anche io sono rimasta delusa), quella che va in scena è solo la descrizione del dramma. Ruba la scena la magistrale interpretazione della moglie di Pinelli, degna moglie di un uomo del genere, fiera, combattiva. Mi sono molto rivista in lei, è il personaggio che più ha catturato la mia attenzione e affascinato.
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