“Mi accorgevo di avere la pelle d’oca. Senza una ragione, dato che non avevo freddo. Era forse passato un fantasma su di noi? No, era stata la poesia. Una scintilla si era staccata dal poeta e mi aveva dato una scossa gelida. Avevo voglia di piangere; mi sentivo molto strana.Avevo scoperto un nuovo modo di essere felice.” (Sylvia Plath)
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martedì 14 gennaio 2020
Hammamet di Gianni Amelio. 2020
Ad Hammamet per scappare dalla giustizia italiana, da Mani Pulite e da se stesso, dal suo corpo malato, stanco, senza più fulgore. Perchè una volta c'erano i garofani rossi da lanciare da un palco, le vacche grasse, una politica italiana che vantava un Pil superiore a quello inglese. Ma ora non più.
Il fascino della storia che ci racconta Gianni Amelio non risiede però tanto nella ricostruzione degli ultimi giorni di vita di Craxi, quelli tristi, duri, cupi, ma nel percorso ibrido, poco chiaro, a metà strada tra il surrealista, il metaforico e il biopic che sceglie di percorrere. Che si rivela disastroso, ma che ha il fascino di tutto ciò che è imperfetto.
Una barca lenta, troppo, che si lascia trasportare dalle onde, con un capitano che ammalia con il suo carisma e l'inquietudine sprezzante, può bastare?
Claudia Gerini non è un’amante ma L’Amante, la pupa del boss, fedele e innamorata, che dormirebbe ancora con un Craxi senza fascino, piegato dal diabete, da un tumore, dalla sconfitta. "Solo una donna ti fa sentire un drago" - dice ad un certo punto il socialista, pensandola. Stupenda nell'incarnare quella corte di nani e ballerine che circondava il segretario all’apice del suo potere. Ma che a lui ancora si prostrerebbe, nonostante non conti più nulla.
Un’intera classe politica aveva confuso finanziamento pubblico con interesse privato, ma Amelio finge che quell’uomo chiuso nella sua villa ad Hammamet non sia Craxi, la figlia, infatti, si chiama Anita e non Stefania, Bobo non viene mai menzionato, i militari, i medici lo chiamano Presidente. Perchè questa finzione, nonostante Favino sia il suo clone? Perchè non si dice mai chiaramente la parola "tangenti"?
Tutti facevano così, "ho aiutato il partito, ho dato i soldi a chi era in fuga da dittature", taglia spesso corto Craxi senza mai addentrarsi, senza che gli amici democristiani che lo vanno a trovare dettaglino o facciano dei resoconti chiari.
Si sente la mancanza di un sano contraddittorio. Un po' di rispetto ossequioso nei confronti della storia politica vera?
Un'occasione mancata per fare una giusta denuncia e rendere davvero omaggio a questo periodo storico in cui ancora esistevano i discorsi altisonanti di chi avvertiva la responsabilità di essere, per cultura e per competenza il portavoce di ideali condivisi.
A salvare il film da molti momenti di puro nonsense (ad esempio il personaggio di Fausto figlio del segretario amministrativo suicidatosi per la vergogna di aver fatto parte di quel sistema) il divino Favino, con la sua mimica, tic, passi, espressioni, da cui si è completamente rapiti, vi chiederete spesso in una sorta di estasi mistica contemplativa dove finisca lui e dove inizi Craxi. (0 viceversa)
sabato 29 settembre 2018
Battle of the Sexes di Jonathan Dayton, Valerie Faris. 2017
Ho adorato Little Miss Sunshine, così ho recuperato La battaglia dei sessi (degli stessi registi), che ha avuto l'ambizioso compito di riportare alla luce la celebre partita di tennis avvenuta il 20 settembre 1973 tra Bobby Riggs e Billie Jean King
Il film ricostruisce l'atmosfera tagliente di quegli anni in campo sportivo, scandendone tutte le tappe, fino ad arrivare al famoso match conclusivo: novanta milioni di telespettatori sintonizzati davanti alla tv per vedere un cinquantenne ex campione di tennis, autodefinitosi 'porco maschilista', sfidare una 29enne campionessa in attività, da mesi in guerra con la federazione tennistica americana per riconoscere a lei e alle sue colleghe un compenso pari a quello maschile.
Billie Jean in seguito, infatti, ruppe con la federazione tennistica per fondare la Women’s Tennis Association, inizialmente considerata illegale, diventando la prima tennista a guadagnare oltre 100,000 dollari all’anno.
Negli anni settanta erano già nati negli Stati Uniti, sull'onda del famoso 68' europeo e mondiale, il movimento femminista e la rivoluzione sessuale. In questo contesto nacque negli anni settanta nell'ambiente tennistico statunitense l'idea di fronteggiare queste richieste per avere una retribuzione equa tra uomo e donna ed i movimenti femministi correlati con delle sfide dimostrative sul campo da tennis .
Settantatre. Anno epocale per noi femministe: venne approvato il Titolo IX della Costituzione, che ratificò la parità dei diritti fra uomo e donna, e la Corte Suprema emise una storica sentenza sul diritto all’aborto.
Il resto è storia, il resto è Billie Jean King. Femminista convinta, lesbica, vorace sportiva, interpretata da un'ineccepibile Emma Stone. Contro l'egocentrico e narciso Bobby Riggs, uno scommettitore seriale mantenuto dalla ricca moglie, che attacca le tenniste, perchè "umorali e inadatte a reggere emotivamente una gara contro un uomo" e che sfida col fine di dichiarare la sua presunta superiorità ( ma a fior di sponsor ovviamente)
Entrambi indossano una maschera di fronte al mondo e agli altri, che calano solo quando scendono con una racchetta in mano nel rettangolo da gioco. Lì, in quell’istante, sono liberi, e si rivelano per ciò che sono: in fondo un po'uguali. Entrambi incostanti nei rapporti umani, soli perché incapaci di legarsi veramente a qualcuno.
Impossibile non pensarre a Serena Williams e all'unicità delle tenniste, icone assolute di femminismo.
Vi adoro.
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giovedì 26 aprile 2018
Jackie di Pablo Larrain. 2016
Chi è davvero la ex signora Kennedy?Jackie non è una Kennedy, lo è solo in maniera acquisita. E morto suo marito rimane quindi "soltanto" una donna senza più nulla, se non i propri figli. Quanta ipocrisia c'è in Jackie?
Quanto vero dolore?
Quanto narcisismo? Il regista risponde con una lunga intervista.
Una donna a cui guardiamo con diffidenza, come il giornalista che la intervista a una settimana esatta dal "fattaccio".
Affranta, afferma che il marito a volte andava "nel deserto per essere tentato" ma poi "tornava sempre dalla sua amata famiglia", trasfigurando biblicamente i tradimenti del marito, pur essendo ben consapevole dell'ipocrisia intrinseca a questa visione delle cose. "E io non fumo", dice con la sigaretta alla mano. Perchè la tragedia di Jackie è proprio questa: la consapevolezza -che la straordinaria Portman rende con i tantissimi primi piani- del dover ogni giorno raccontare una favola.
Al sacerdote che officerà le esequie del marito (John de Maria nella sua ultima apparizione sullo schermo) rivela: "Tutto quello che ho fatto per il funerale non è per lui, né per il suo lascito, ma per me". Per non essere dimenticata - emblematica la scena in cui guarda dei manichini con la sua stessa pettinatura-
vorrebbe gli stessi funerali che furono di Lincoln, presidente assassinato anch'egli durante il proprio mandato.
Jackie mira a ricreare una seconda Camelot, la mitologica reggia di Re Artù, perchè ormai è sola e l'unica risposta è procedere all'edificazione del mito: raccontare al mondo una favola per coprire le ombre, facendosi in definitiva attrice della stessa grande ipocrisia che ha messo lei sotto scacco.
Fenomenale la sceneggiatura di Noah Oppenheim (premiata a Venezia) accompagnata dai toni bassi e distorti delle notevoli musiche di Mica Levi
mercoledì 6 settembre 2017
Pasolini di Abel Ferrara. 2014
Il Pasolini di Abel Ferrara non convince,ma ne riporterò ciò che di buono vi ho trovato,in primis l'atmosfera di serenità.
Si parte dall'intervista rilasciata in Francia all'emittente Antenne 2, diventata celebre per l'affermazione riguardo al piacere dello scandalizzare nell'arte, si passa attraverso la tesa e provocatoria ultima intervista concessa a Furio Colombo per la Stampa, in cui si scaglia contro la società borghese dell'epoca, così occupata in futili faccende da non accorgersi dei rischi di esplosione di violenza che restano soffocati nell'ombra ma che sono continuamente pronti ad esplodere. E tra un pranzo conviviale e l'altro e una partita di pallone con i "ragazzi di vita" delle borgate, c'è il tempo per mostrare spesso Pasolini/Dafoe seduto a "creare": è alla sua scrivania, davanti a una macchina per scrivere, dove stanno prendendo corpo le sue due ultime opere. Il romanzo "Petrolio", che uscirà postumo e incompiuto soltanto nel 1992, e la sceneggiatura di "Porno-Teo-Kolossal", il lungometraggio che doveva seguire "Salò" e che il suo autore voleva affidare prima nuovamente alla coppia Totò/Ninetto Davoli, dopo il successo di "Uccellacci e uccellini" e poi ad Eduardo De Filippo in sostituzione del principe De Curtis prematuramente scomparso.
E proprio la messa in scena di Petrolio chiuderà la pellicola, come un supplente Ferrara rende omaggio al nostro amato, montando cinematograficamente ciò che Pasolini non fece in tempo ad ultimare.
E noi che amiamo Pasolini apprezziamo giusto questo. Willem Dafoe fisicamente somigliantissimo ma abissalmente distante, nella sua coolness mewyorkese, ma senza l'anima del nostro PPP. Per non parlare di questa babele di suoni, il labiale dell'attore che pronuncia sempre tutto in francese o inglese.
straniamento tardobrechtiano. Ferrara punta tutto sulla parte corporale, esibizionista e provocatoria di Pasolini, dimenticando che era anche l’autore che ha rivoluzionato l’idea di cinema e letteratura, il primo che ha denunciato il pericolo del consumismo sfrenato e del conformismo televisivo.
mercoledì 26 aprile 2017
Neruda di Pablo Larrain. 2016
Pablo Larraín. rampollo di una grande famiglia cilena di destra, coinvolta nel potere anche con Pinochet, non sbaglia un colpo. Le sue sono pellicole intelligenti, di denuncia. "Io sogno lui e lui sogna me”, il perseguitato qui è Pablo Neruda. Il poeta, ospite a una qualche serata di gala, entra in bagno e – mentre piscia – discute con alcuni politici che gli danno del traditore. Li manda a quel paese e con grande serenità esce dalla toilette.
ll poliziotto che gli dà la caccia narra la storia: presenta il poeta escludendo di fatto il popolo e la classe operaia. Peluchonneau (il poliziotto) descrive in maniera cristallina le contraddizioni del personaggio che erano le contraddizioni di tutto il partito comunista (e non solo di quello cileno): quando un’attivista del partito chiede a Neruda se dopo la rivoluzione comunista gli uomini saranno tutti come lei “che pulisce la merda dei borghesi dall’età di 11 anni” o tutti come lui “che fa la colazione a letto e l’amore in cucina”, il poeta resta turbato.
L'arte non cambia il mondo - sembra suggerire il regista- ma gli dà senso. Volutamente onirico e irrazionale, fotografia sensuale e allucinata, che restituisce il respiro opprimente della prima Guerra Fredda.
Se non l'avete visto, correte, merita una chance.
mercoledì 22 febbraio 2017
Sully di Clint Eastwood. 2016
Un impossibile atterraggio d'emergenza sul fiume Hudson, a due passi dall'Empire State Building e della Freedom Tower di New York.Chesley Sullenberger, chiamato “Sully” dagli amici, scarta entrambe queste opzioni, le uniche apparentemente possibili, quelle che dalla torre di controllo gli suggeriscono.
ne inventa una impossibile: far ammarare il pesante airbus in mezzo alla città di New York, nelle fredde acque del fiume Hudson.“ We’are gonna be in the Hudson ” dirà al controllo radio prima di perdere il segnale, cioè “ce ne andiamo nell' Hudson”.
Mentre tutti lo osannano come un eroe, però, la commissione d’inchiesta è bramosa di scaricare la colpa su qualcuno per quanto accaduto.
Clint Eastwood la sa lunga,mi sono commossa all'arrivo della cavalleria di salvataggio.
Ma bellissima anche la scena in cui sui maxischermi di Times Square scorrono le immagini dell’impresa di Sully che celebrano l’eroe del giorno tra le mille insegne luminose di brand commerciali, in cui mi è sembrato di riconoscere anche il volto di Clint Eastwood, un’ironica strizzatina d’occhio autoreferenziale del regista. Mentre tutti guardano verso l’alto, verso la figura glorificata dai media, Sully transita per strada facendo jogging, passando inosservato e attanagliato dai dilemmi.Le scelte da fare potevano essere altre, non serviva finire nel fiume inquinandolo, non c’era il bisogno di distruggere l’aereo facendolo finire in acqua. Ancora una volta sono i soldi a fare la parte del leone, schifando lo spettatore: è possibile che l’uomo abbia il potere di sminuire il salvataggio di così tante persone solamente anteponendovi il denaro?
Tutto funziona, è vero ed incredibile, a cominciare daTom Hanks. A completare un quadro già piuttosto roseo uno splendido montaggio (che fa i grosso del lavoro nel raccontare in maniera non lineare una storia estremamente lineare), un tema musicale delizioso (di Eastwood), degli effetti speciali notevoli e un impressionante sound design. Consiglio personale: vedete il film in lingua originale. La voce di Hanks è sempre meravigliosa
martedì 21 luglio 2015
Dallas Buyers Club di Jean-Marc Vallée. 2013
"Mi sta dicendo che valgo quanto un cavallo destinato a diventare cibo per cani?"
Texas anni 80. Ammalarsi di AIDS era equiparato ad aver compiuto un efferato crimine. Intolloranza, pregiudizi, omofobia. Il protagonista e vittima è Ron, cowboy di Dallas, normale finchè dedito a rodeo e belle donne. Poi scopre che, invece, di avere migliaia di linfociti, ne ha solo nove.
Sarà un viaggio all'interno delle case farmaceutiche per scoprire come poter andare oltre "quei 30 giorni" diagnosticatogli, scoprendo che il business viene prima della salute. L'Azt è il farmaco "legale" usato per sconfiggere il male, che si scoprirà in realtà essere nocivo, solo in Messico vertà poi curato con medicinali non approvati dall'FDA decidendo di contrabbandare questi farmaci non autorizzati. Crea il Buyers Club da cui il titolo, 400 dollari di quota associativa e si riceve la merce.
Grazie a Rayan, l'amico transessuale, Ron esce dal tunnel dell'omofobia.
A onor del vero, dopo aver effettuato delle ricerche innescate dalla voglia di comprendere meglio post-film, ho letto che in realtà il contestato farmaco AZT è molto utile contro l'AIDS, mentre molti dei farmaci importati da Woodroof no. Ci sono delle interviste on line di Woodroof, l'uomo realmente ammalato di AIDS, a cui il film si ispira, non prese mai parte ad un rodeo, era solo un appassionato, qui Ron cavalca i tori, forse per simboleggiare quanto solo un uomo così ostinato potesse fronteggiare, "prendere per le corna" una malattia così devastante. Sui gusti sessuali veri ho letto, invece, pareri dissonanti: chi lo definisce omofobo, la moglie, invece, dichiara che fosse bisessuale, la dottoressa che lo curava che si dichiarasse gay. Di sicuro anche Woodroof venne abbandonato dagli amici quando si seppe che era sieropositivo, aveva, inoltre, una ex moglie, figlia e sorella non inserite nella sceneggiatura. Woodroof, che fino a prima di ammalarsi era convinto che l’AIDS fosse una malattia associata solo a gay e tossicodipendenti, scopre che può essere trasmessa anche con rapporti non protetti e si ricorda di aver fatto sesso con una ragazza che aveva dei buchi sulle braccia.
Rayon è un perosnaggio inventato, ma è necessario per far capire come Ron cambi atteggiamento nei confronti dei gay. Woodroof fece causa contro il divieto ma, com’è mostrato nel film, la perse: il giudice Charles Legge disse di essere personalmente d’accordo con le sue ragioni, ma che non trovavano giustificazione nelle norme vigenti.
martedì 30 settembre 2014
Séraphine di Martin Provost. 2010
"La pittura è scomparsa nella notte".
Se come me credete che l'arte sia un mistero, questo è il film che fa per voi. Sette César vinti non sono pochi; si tratta infatti dei premi nazionali di una cinematografia - quella francese - che non teme rivali quanto a qualità media delle pellicole prodotte.
Qui l'arte è ispirazione divina, un talento naturale e necessità, una forza che tutto soggioga. Séraphine Louis è una donna umilissima con un talento prodigioso per la pittura.Lavora come serva e lavandaia, ma ha dentro una sensibilità singolare nei confronti della natura e un mondo ricchissimo che poteva essere espresso solo tramite la pittura.
La miseria che racimola ogni giorno la spende per trovare i colori per la tela e non per mangiare, non ha carbone per scaldarsi. E’ una necessità che nasce da dentro ed è personale, non c’è ricerca di approvazione o ammirazione, lei dipinge solo per se stessa. A scoprire, in maniera del tutto casuale, questo talento è Wilhelm Uhde, collezionista e critico d’arte, tra i primi a comprare opere di Braque e Picasso e scopritore di Henry Rousseau. Il punto di vista del film è proprio quello del critico: noi, infatti, conosciamo Séraphine solo attraverso il suo contatto con Uhde, la prima volta nel 1912, quando il collezionista arriva a Senlis e riconosce il suo talento, Séraphine già dipinge, "... è stato il mio angelo custode a suggerirmelo", noi non sappiamo nulla di lei, il suo passato è un mistero e tale resterà.
Quando poi Uhde deve scappare a causa della guerra, non sappiamo più nulla di Séraphine, è solo nel 1927, quando il critico nuovamente la incontra, che torna in scena. La sua incredibile evoluzione artistica, dalle prime piccole e stentate nature morte, alle opulente composizioni naturali è un enigma.Il collezionista contribuirà a distruggere la sua persona, mostrando la parte peggiore dell’arte: la creazione del culto della personalità dell’artista al solo scopo di guadagnare denaro. Séraphine è inconsapevole. Prima non vuole credere: “I ricchi sono sempre entusiasti”, poi cede e finisce per essere travolta e schiacciata da qualcosa più grande di lei.Morirà in un manicomio, tradita da un Uhde incapace per la crisi economica a far fronte alla sua pazzia.
Straordinaria la bravura di Yolande Moreau nel rendere la goffaggine, la malagrazia, lo spirito scontroso ed eccentrico di Séraphine, si prova quasi avversione verso la sua figura, così sporca e trasandata, eppure i suoi quadri erano di una ricchezza e di una bellezza che lascia ancora oggi senza parole. Non tutti gli artisti sono pazzi, né, tutti i pazzi, artisti. Non è raro, però, che la follia vada a braccetto con la pittura, la musica, la letteratura. Ed è spesso da un´ossessione che scaturiscono colori, nascono forme, parole, note. Le ossessioni di Séraphine Louis erano addirittura due. Dio e la natura. Lei le fece coincidere. E magistralmente.
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venerdì 26 settembre 2014
Pollock di Ed Harris. 2000
Jackson Pollock era un genio depresso, alcolizzato, con un travagliato rapporto con sua moglie Lee, ma capace al tempo stesso di diventare uno dei migliori pittori della sua epoca, essendo capace di creare una nuova forma di pittura grazie alla tecnica per ‘sgocciolamento’. Harris è qui regista e Pollock, aiutato anche da una somiglianza fisica incredibile, riesce ad assumere di Pollock ogni tic, ogni movenza, ogni atteggiamento. Al suo fianco la moglie Lee, interpretata splendidamente da Marcia Gay Harden, capace di sopportare ogni pazzia del marito e giustamente premiata con l’Oscar del 2001 quale miglior attrice non protagonista.
Pollock: tormentato dalla necessità di esprimere se stesso e il desiderio di escludere il mondo intero dalla sua opera. Poi una giovane donna cammina portando con sé una rivista: è una copia di “Life” del 8 agosto 1949 e la presenta aperta ad un uomo che, con le mani sporche, vi pone la propria firma. E’ Jackson Pollock, al culmine della fama, mentre espone i suoi quadri ed alza lo sguardo, fissa lontano, oltre ad una qualche frontiera, come nella sua arte. Si lamenta del genio di Picasso perchè "lui aveva fatto già tutto" e viene riformato dall’esercito per problemi psichiatrici, comincia a dipingere dopo aver seguito all’Art Student Ligue i corsi di Thomas Hart Benton, pittore regionalista molto influente in quegli anni. Pollock cerca uno stile e proprio la Krasner lo introduce negli ambienti dell’avanguardia di New York. Conosce Peggy Guggenheim, interpretata da Amy Madigan che, stupita dal lavoro del pittore, organizza la prima esposizione personale (novembre 1843) e gli offre un contratto quinquennale. Gli commissiona inoltre un dipinto di grandi dimensioni che, nel film, Pollock dipinge in una sola notte, dopo settimane di indugio davanti all’enorme tela bianca. “Mural” è il titolo dell’opera e si presenta come un groviglio di linee ritmicamente ripetute, alludenti ad un caos primigenio. Nell’eseguire il lavoro Pollock esaurisce anche se stesso, ritrovandosi senza vitalità e ricadendo sempre nel vizio dell’alcol.A Long Island, il giovane Hans Namuth fotografa e filma l'artista al lavoro: le continue riprese sono una sofferenza ed infine Jackson, sentendosi "finto", ricomincia a bere, presenti tanti suoi "amici", compreso un'arrogante Harold Rosemberg, è l'ennesimo crollo.
Follia e fragilità. Un film un po'sottovalutato, non eccezionale, ma importante.
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domenica 23 febbraio 2014
12 anni schiavo di Steve McQueen. 2014
Io non voglio sopravvivere. Io voglio vivere.
Seconda metà dell'800. Solomon Northup è un violinista di colore che vive di musica assieme alla moglie e ai due figli nello Stato di New York. Viene rapito e venduto come schiavo da due truffatori. 12 gli anni di schiavitù tra soprusi, violenze e privazioni. Sarà poi un carpentiere (Brad Pitt) dalle idee liberali che conosce durante i lavori nella proprietà di Epps, (Michael Fassbender )a informare le autorità. Lui quindi il personaggio della svolta, il bel cinquantenne Pitt, ma sottotono e poco convincente.
Corpi. potrebbe essere questo il sottotitolo dei film di McQueen, da quelli scheletrici di Hunger, a quelli un po'da pornoattore di Shame fino ad arrivare a quelle spalle aperte degli schiavi di quest'ultimo: Patsey è praticamente un oggetto nelle mani di Edwin, schiavista perfido, laido e cruento. Alcolizzato, "credente" e maschilista. Se Solomon riesce a distinguersi rispetto agli altri schiavi, è grazie al suo alfabetismo. Che lo porterà a scrivere, dopo la liberazione, le sue memorie da cui il film è tratto.Il 2013, l’anno in cui ricorre il 160° anniversario della riacquistata libertà di Northup, è poi sembrato al regista il momento ideale per ricordare la sua storia.
Terzo film di McQueen e 9 le nomination. Logoro il tema del razzismo, ma interessante la scrittura di questo film, Patsey è un personaggio vincente, brividi in ogni suo sguardo. Di classe la fotografia e la celestiale colonna sonora. Tutto elegantissimo. Nella copertina di promozione italiana solo star bianche. Il film parla della segregazione razziale. Un po'incoerente.
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venerdì 15 novembre 2013
Un affare di donne di Claude Chabrol. 1988
"Ave maria piena di merda, marcio è il frutto del ventre tuo..."
Marie-Louise Giraud. Forse, l'ultima donna condannata a morte per ghigliottina in Francia nel 1943. Procurava gli aborti a donne del suo paese rimaste incinta dai gendarmi tedeschi e affittava camere alle sue amiche prostitute. Questa l'accusa, da parte del vile generale venduto-collaborazionista Petain. E la condanna verrà ovviamente da un tribunale di soli uomini, gli stessi che inguaiavano le sue "clienti". Francia, sconfitta dai tedeschi che vuole mostrare pugno di ferro nella difesa della moralità pubblica. Sarà quindi la fine, l'avvocato lo capisce subito. Non c'è scampo.
Tu credi che hanno un'anima i bambini in pancia alla madre? - è il dubbio che ad un certo punto assale la protagonista. -Bisognerebbe che prima ce l'avessero le madri. risponde l'amica prostituta. Marie viene descritta come fredda e solo legata al dio denaro: È facile non fare stronzate quando si è ricchi, ma il dubbio è che l'immagine che ne viene data sia quella di una donna cattiva, solo per giustificare la sua condotta troppo libera.
Tanti i segnali nel film di quella che sarà la punizione finale della donna: il figlio che dice di voler fare il boia da grande, l’oca decapitata alla festa paesana che il suo amante le regala, l'uomo sparato in pubblica piazza che raggiunge Marie e la guarda fissa negli occhi prima di morire.
Impeccabile Isabelle Huppert, la sua interpretazione è l'unica nota positiva che salverei del film. Bocciata sia la libera interpretazione, i fatti non sono documentati, - perchè quindi infangare così una donna- sia il messaggio veicolato. Si legge, infatti, alla fine: "ayez pitié des enfants de ceux que l'on condamne", "abbiate pietà dei figli di coloro che condanniamo". Roba da non crederci!! Di Marie condanniamo solo la visione intima che il regista ne dà, una visione sua, personale, e che nulla a che fare con il ruolo sociale che la donna rappresenta.
Questo lo rende dunque un importante documento da far vdere a tutti coloro che, ancora oggi, si oppongono all’aborto legalizzato, dimenticando che in un passato per niente remoto abortire per una donna significava rischiare la propria vita.
venerdì 20 settembre 2013
Rush di Ron Howard. 2013
«Quando scendo in pista sono consapevole di avere il 20% della possibilità di morire»
Uscito ieri. Hunt-Lauda e i loro capricci targati 1976. Razionale e freddo Lauda, lo scienziato delle corse; ribelle e dannato « perchè solo quando sei così vicino alla morte, ti puoi sentire realmente vivo» Hunt. Entrambi però disubbidiscono alle famiglie, vogliono sentirsi liberi,correre. Nonostante le due filosofie di vita agli antipodi, quindi, i punti in comune durante il film verranno fuori così come la medesima passione, che li porterà ad amarsi, difendersi e rispettarsi.
Non sono un'appassionata di Formula 1, ma i rombi dei motori emozioneranno anche questa categoria alla quale la scrivente appartiene. La McLaren, che io ricordo, vanta autisti dalla tuta bianca, qui saranno le tute rosse, invece, a farla da padrona sia tra ferraristi che tra i loro antagonisti.
Non saprò accattivarmi la simpatia di chi ama i motori, le corse, conoscevo Lauda solo di nome: ma ora so che è un mito, solo un incosciente rientrerebbe da un incidente quasi mortale dopo 42 giorni per poi ritirarsi senza acciuffare quella vittoria tanto agognata. Una crescita la sua. Una di quelle che forse ti portano a capire ciò che veramente conta. Una ricostruzione fedele, onesta, corse reali con tanto di fumo da sgommata e audio assordante.
Un film che appaga gli occhi e il cuore e commuove. Ho tifato, trattenuto il respiro, abbassato gli occhi,sperato. Da pelle d'oca e lacrimuccia. La storia di due grandi campioni, quando la Formula 1 sapeva dare emozioni. Vere.
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sabato 27 luglio 2013
Truman Capote: A Sangue Freddo di Bennett Miller. 2005
E' come se io e Perry fossimo cresciuti nella stessa casa. E un giorno lui è uscito dalla porta sul retro e io da quella davanti
1959. Londra. Le immagini di apertura mostrano spighe accarezzate dal vento. E poi quella parole vere, pronunciate con quel modo di parlare capotiano così particolare: “Io sono sincero su ciò che scrivo…dire che sei una cosa quando ne sei un’altra…”. Poi quell'omicidio. Le sue mani ritagliano l'articolo di giornale.
Comincia così il film dello strabiliante libro che ha generato la non fiction novel, genere a metà strada tra la letteratura e il giornalismo. Nelle Harper Lee autrice de “Il buio oltre la siepe” lo accompagna durante le doglie di questo parto che darà vita aun nuovo modo di fare letteratura. Perry Smith, al quale si affeziona pericolosamente, tanto che l’amica Harper Lee teme che stia per innamorarsene, è uno dei due killer che ha sterminato una famiglia composta da quattro persone nel blando tentativo di rapinarli per un'informazione errata circa la somma di denaro che la famiglia possedeva in casa. Nel 1965 assisterà all’esecuzione dei due e porterà a termine l’ultima parte del suo folgorante romanzo. Capote parte inizialmente come inviato del “New Yorker” solo per scrivere una pagina di cronaca sull'efferato omicidio. Ma tramite una telefonata informa subito il direttore che le cose stavano, nella sua mente, prendendo una piega diversa. Poi quell'attaccamento a Perry, che nel romanzo però viene celato e alla fine sembra quasi che non attenda altro che venga giustiziato per poter porre fine a quel romanzo "così grande da togliergli il respiro".
L'amore vero è solo nei confronti dell'arte, nasconde a Perry che il romanzo è quasi terminato, gli racconta di aver scritto ancora poco, di non aver nemmeno scelto il titolo. Capote rischia di perdere la fiducia di Perry, se si sentisse tradito, se decidesse di non parlare più? Capote vive dentro di sè l'inferno e il film lo trasmette in maniera potente. E alla fine non sarà la corda al collo ad uccidere i due killer, ma la cinicità di Capote che li muove come due pedine, li usa e poi se ne disfa. Ma Truman ama il Perry il personaggio, quello che si muove nel libro e non nella cella.
Che eleganza. Tutto è così perfetto grazie a quel cronista spietato che ha dentro la tragedia dell'abbandono materno. Non è la personalità degli assassini quella che si cerca di ricostruire, diventa banale al cospetto di quella del genio Capote. Non è il dramma che v'interesserà, quello è in secondo o terzo piano, ma quanto Capote abbia capito che la crudeltà interessa e attira. E la povera famiglia sterminata diventa un romanzo vendutissimo.
Bellissimi gli occhi di Perry, malinconici al punto giusto. Forse Capote non li ha mai dimenticati: morirà alcolizzato nel 1984.
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