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mercoledì 18 settembre 2019

C’era una volta a… Hollywood di Quentin Tarantino. 2019

Mi sono ritrovata in sala con una schiera di adolescenti e - spiazzata dalla loro presenza- ho cominciato a chiedermi se si fossero dati appuntamento lì per caso, o se avessero, ad esempio, mai visto Pulp Fiction, (recuperandolo - ovviamente) innamorandosene.
Se fossero pronti ai quarti d'ora al cardiopalma tarantiniani, per non ritrovarmeli a urlare al primo schizzo di sangue. Ma soprattutto se fossero a conoscenza del fatto che grazie a pellicole come Bastardi senza Gloria, la Seconda Guerra Mondiale ha guadagnato un epilogo ben diverso da quello che conosciamo. Perchè cambiare il corso degli eventi attraverso il cinema è una specie di missione. E quando a Cielo Drive, la strada privata dove vive l'attore Dalton (il protagonista, Leonardo Di Caprio) e la sua inseparabile controfigura Cliff Booth (Brad Pitt) arrivano Roman Polanski e la sua nuova compagna Sharon Tate sarà chiaro che la redenzione - questa volta- riguarderà la tragica storia biografica del regista. Sharon Tate è bellissima e pura come una bambina, un angelo che merita redenzione: significativa la scena in cui si ritrova in sala, con le piante dei piedi annerite poggiate sulla poltrona antistante, ad autocompiacersi e ad osservare le reazioni in sala nella sua prova attoriale al fianco di Dean Martin. L'aggancio con la riscrittura salvifica del noto fatto di cronaca è rappresentato dall'entrata in scena dei «fucking hippies» della Manson Family, presentati con una sequenza ricca di tensione allo Spahn Movie Ranch, landa californiana dove la comune "alloggia". Charles Manson si intravede per un attimo a inizio film compiere una specie di sopralluogo in casa Polanski: viene messo in luce il lato oscuro e selvaggio, istintuale, distruttivo e omicida della subcultura hippie in quei tempi ambigui di radicale trasformazione collettiva. Tutto viene impacchettato a regola d'arte per arrivare all'ultima mezz'ora del film, quella cruenta, quella a marchio Taratino che tutti ci aspettiamo. A chi si sia chiesto se sia lecito affrontare con leggerezza un fatto di sangue così scioccante per l'America e per una serie di persone che ancora ne portano le ferite, suggerirei di guardare la storia sotto un'altra ottica, quella tarantiniana, quella che non documenta, dà giudizi o assolve, presentata e resa agevole -affinchè ogni spettatore vi si possa apprestare- attraverso, la ricostruzione filologica della Hollywood degli anni Sessanta con i suoi prediletti film di serie B, con quel cinema italiano da sempre nel profondo della sua cultura. Tutto volto ad affermare con assoluta certezza che solo la settima arte con il suo potere taumaturgico può davvero salvare, redimere, perchè la sola entità suprema al mondo giusta e compassionevole. P.S. Iñárritu non se ne dolga per qualche battuta di troppo sui messicani. Brad Pitt illegale. Non sarà il sangue a farvi salire l'adrenalina, sono pronta a scommetterci! (Anche i tredicenni alla fine hanno applaudito)

domenica 8 settembre 2019

Martin Eden di Pietro Marcello. 2019

Sconquasso narrativo, fotografia in filigrana e mistificazioni storiche sul il primissimo novecento, il post guerra, gli anni del boom e gli anni ottanta. Basato su un libro noto ma spesso tradito: a cominciare dal raggio d’azione che si sposta dalla California ai vicoli di Napoli, classico nell’impianto ma modernissimo nella realizzazione. Inquadrature veramente efficaci e di rara bellezza. Si apre “ideologicamente” in maniera molto forte: con un filmato di repertorio dell’anarchico Errico Malatesta durante la manifestazione a Savona del 1° maggio 1920 per mettere in risalto le contraddizioni cruciali che hanno accompagnato il secolo scorso: dal ruolo della cultura di massa al rapporto tra individuo e società, tra socialismo e individualismo, fino alla lotta di classe. Martin non è istruito ma vuole arrivare a sapere e conoscere, si innamora di Elena che appartiene ad mondo diverso dal suo: ‘bello e lineare’, di una borghesia pulita. Il successo e il riscatto arriveranno alla fine, ma il tardivo apprezzamento di chi prima lo disprezzava, senza che lui sia cambiato di una virgola, lo farà impazzire di rabbia. Martin ha le spalle larghe e le unghie nere. Appare stralunato, assente, scostante e intenso, incarnando alla perfezione la figura dell'anti-eroe, con la passione per la scrittura quale mezzo di riscatto personale e veicolo necessario per comunicare lo stato d’animo di angoscia esistenziale e denuncia sociale.
Martin Eden, il marinaio che non sa pronunciare il nome di Baudelaire, ma che finirà per tenere lezioni nelle più importanti università incarna il prototipo dell’uomo umile che si eleva dal suo rango con dedizione e resistenza, purconservando un malessere vitale che spesso sfocerà nella delusione e nell' auto-distruzione. E se anche il film non dovesse convincervi gli occhi di Luca Marinelli valgono da soli il prezzo del biglietto!

giovedì 21 febbraio 2019

La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi. 2019

Orso d'argento per la miglior sceneggiatura al Festival di Berlino. Rione Sanità a Napoli, una gang di quindicenni vuole entrare nei locali esclusivi, comprare vestiti firmati e motorini nuovi, ma soprattutto liberare i propri cari e se stessi dai capi camorra che controllano i diversi quartieri. Solo a quindici anni si può avere l’illusione di portare giustizia nel quartiere inseguondo il bene attraverso il male. E mentre corrono in scooter alla conquista del potere si innamorano, vivono amicizie fraterne, sgranocchiano crostatine, giocano alla playstation. Non si parla di politica, ma di sopravvivenza quotidiana,di adolescenti senza futuro, costretti a sopportare la vista di genitori che pagano il pizzo per una protezione costruita ad arte da una malavita che ti avvolge come un rampicante invasivo e soffocante. Regista e sceneggiatori vogliono raccontare di come la camorra sia tornata a chiedere il pizzo ovunque, denunciare l'utilizzo spropositato di cocaina con le scuole pressoché inesistenti. La dimensione in cui si gioca il fim non è uno spazio temporale, geografico, fisico, è una condizione.Napoli, da particolare, si fa generale: diventa una regola, un modo di vivere universale a determinate condizioni, un’equazione mortale. Il finale chiude improvvisamente una storia che ancora non è finita, perchè la vicenda di Nicola (protagonsta capo del clan di ragazzini) non conosce vie d’uscita. Non vedo nè pessimismo, nè retorica in Saviano. Mai. Vedo piuttosto l'abilità di chi sa cogliere e raccontare lo smarrimentodi chi vive tra una società in continuo mutamento e in quartier difficili in cui il sistema mafioso è impossibile da arginare. Con un'educazione criminale, ma anche profondamente sentimentale. Urgenza di denuncia, passione nel raccontare. Roberto Saviano è un grande giornalista. Nei suoi libri il suo talento nella scrittura da reportage si vede tutto. Che vi piaccia o meno come individuo, siete dei folli se non riconoscete il suo valore professionale. A differenza dei protagonisti di Gomorra questi ragazzini non sono nati in famiglie camorriste. Saviano denuncia un vuoto di cultura. Qualcuno può forse dargli torto?

lunedì 11 febbraio 2019

Il colore nascosto delle cose di Silvio Soldini.2017

Se sei indeciso e non sai che direzione prendere i film di Silvio Soldini ti faranno sentire meno solo. Anime divise in due in cerca di una guida: uno è il prubblicitario Teo, con tablet e cellulare perennemente in funzione, l'altra è Emma, un’osteopata che ha perso la vista a diciassette anni.
Bastone bianco in mano e la scelta stilistica di non mettere mai perfettamente a fuoco le immagini. Piccole cose che avvengono in spazi metropolitani e dialogano coi personaggi alla ricerca di un’armonia impossibile. La narrazione è intrigante, ma abbastanza scontata. Da vedere solo in giorni in cui si è a letto con l'influenza e ci si annoia. Bellissima la schiena della Golino.

domenica 3 febbraio 2019

The lobster di Yorgos Lanthimos. 2015

Non un è mondo fantastico, piuttosto un universo kafkiano, dove non è la realtà ad essere assurda, ma è l’assurdo che diviene reale. Nella società di The lobster la solitudine non è ammessa, per una strana legge, infatti, chi è single viene arrestato: le persone che non amano vengono condotte in un albergo, dove hanno qualche settimana per poter trovare l'anima gemella e tornare nel mondo, se questo non avviene verranno trasformati in un animale a loro scelta. Colin Farrel sceglie l'aragosta (the lobster) perchè è fertile e sopravvive al secolo di vita."Bene - gli viene risposto - di norma tutti pensano ai cani, ed è per questo che ce ne sono così tanti. Pochi pensano agli animali esotici, ed è per questo che rischiano l'estinzione".
Una voce over racconta il banale, ciò che già va in scena e non ha bisogno di essere riproposto, ma copre l'essenziale, anticipa gli eventi, li segue, vi si sovrappone. Non vi sono ammesse vie di mezzo: sei eterosessuale o omosessuale, solo o in coppia, perchè - sembra suggerire il regista- in una società commerciale e normativa come la nostra definire bene le categorie è assolutamente necessario, schedare gli altri, renderli prodotti. Non esiste il vero amore, non esiste il vero affetto, i sentimenti sono ricondotti all’avere cose in comune ed esserne razionalmente consapevoli. Tutti i personaggi di Lanthimos sono noncuranti, privi di personalità e slanci di vita, espropriati del più minimo barlume di intelligenza, semplici automi, individualisti, completamente anaffettivi: c’è chi prova a sedurre puntando esclusivamente sull’abilità sessuale, chi rinuncia ad accoppiarsi perché non ha mai trovato un compagno con i capelli belli come i suoi, c’è chi simula lo stesso disturbo fisico per fare colpo sulla futura partner. David allora fugge e si rifugia fra i “solitari”, ribelli al sistema che rifiutano l’accoppiamento, si impongono anzi di non avere legami. Vivono nel bosco circostante l’albergo come guerriglieri. Ma se diverso è il credo, altrettanto rigide e castranti sono le regole. E il protagonista sceglie, contro ogni regola, in cambio di un prezzo altissimo, l’amore, unico mezzo per giungere alla libertà. La conclusione - in pieno stile Lanthimos- sarà nichilista: scegliere il cuore, anteporlo alla ragione, porterà inevitabilmente ad un mondo senza luce.

giovedì 24 gennaio 2019

Youtopia di Berardo Carboni. 2018

Opera di estrema attualità, soprattutto per i millenials, la generazione connessa per eccellenza. Youtopia è la storia di una ragazza che si spoglia online per racimolare i soldi. L’unico modo per evadere dalla sua cruda realtà è rappresentato sempre dal web, un videogioco, dal nome “Landing”, dove, Matilda si trasforma in un avatar, libera mondi dai mostri insieme al compagno Hiro; qui riesce a vivere emozioni vere, reali nonostante sia solo un’“utopia”. Deciderà di mettere all’asta la sua verginità per non dover vendere invece la casa. Un farmacista ricco ed eccitato, in cerca di sesso a pagamento, accetterà di pagare. Botanico mancato, è ossessionato dalla bellezza e dalla gioventù, a caccia di primavere proibite.
La legge del mercato farà il resto: domanda e offerta si incontreranno. Tutti i personaggi vivono una sorta di straniamento e un allontanamento dalla percezione della realtà: per Matilde è risultato del digitale, la nonna è vittima di un delirio senile,l’acquirente caduto in una dipendenza da desiderio insoddisfatto tipicamente alto borghese. Perchè abbiamo tutti una doppia vita. Per scelta, per disperazione, o anche solo per sopravvivere alla prima.

domenica 6 gennaio 2019

Cold war di Paweł Pawlikowski. 2018

Andiamo dall’altra parte, la vista è migliore da lì”. Con la dedica finale di Pawlikowski, “ai miei genitori” capiamo che i due protagonisti non condividono solo il nome di battesimo (Wiktor, pianista e arrangiatore colto e malinconico e Zula, la sua allieva) dei genitori del regista, ma che ad essere narrata è proprio loro storia, un tentativo di riportarli in vita per farli tornare a suonare, cantare e danzare quell’amore così travolgente e impossibile, tra una Berlino divisa in due, la Jugoslavia e la Parigi bohémien. In una Polonia devastata dalla guerra c’è chi pensa che la ricostruzione passi pure dall’Arte, cioè il“Mazowsze”, corpo di ballo e canti popolari nato per volontà del governo filosovietico, esportato in tutto il blocco orientale nell’arco degli anni ’50, su cui il governo mette gli occhi, trasformandolo in uno strumento di propaganda comunista. Il musicista e direttore della compagnia s'innamora della misteriosa allieva Zula. Arrivati a Berlino Est per un’esibizione, Wiktor organizza la fuga dall’altra parte del blocco per vivere finalmente in libertà quella storia d’amore. Ma Zula, contro ogni previsione, non si presenta all’appuntamento concordato. Non ha rimostranze contro il comunismo e anzi teme la libertà del blocco occidentale, che percepisce come un ostacolo che evidenzia la distanza culturale con il suo amato. La vita da esuli, pur ricca di successi artistici e musicali, li consuma, li priva della loro identità e li rende deboli. Lei annega nell'alcol, lui in una debolezza cronica e priva di carattere. Zula, infatti, dirà ad un certo punto al suo uomo: «non sei più lo stesso che eri in Polonia».
C'è per tutto il film un apparente freddezza emotiva, la passione di Zula e Viktor racchiude, infatti, e diventa l'emblema dello spirito polacco, quello di un popolo oppresso da nazisti e comunisti. Ma l’amore è una ragazza che ti volta le spalle e se ne va per sempre: poi esita, si ferma, torna indietro correndo e ti bacia. Grazie per quel brivido. E per tutta la sensualità del montaggio, per l'importanza data alla musica, dove ciò che viene cantato è importante più di ciò che viene detto. Magnetica Joanna Kulig

venerdì 4 gennaio 2019

The Master di Paul Thomas Anderson. 2012

Ho riguardato The Master perchè ha una fotografia eccelsa, ricca di luce calda che sfiora il viso dei personaggi. E'girato interamente con una macchina da presa da 65/70mm e questo lo rende un'esperienza visiva irripetibile e contemporanea. Ho guardato questa pellicola più volte negli anni per poterla apprezzare e comprendere, penso di non essere ancora giunta ad una comprensione totale. Ma la consiglio, perchè nella vita ciò che disturba ha senso. Viene descritta un'America violenta e contraddittoria, nascosta da grandi abiti ed acconciature, arredi e canzoni anni Cinquanta. L'atmosfera c'è da subito, dalla prima visione, le onde delle acconciature femminili sono psichedeiche, ossessive, catturano. La musica è di Jonny Greenwood con i suoi pizzicati e le sue "stonature", a sottolineare un continuo mood denso, sensuale e vagamente teso. Tutto ruota attorno alla relazione tra Freddie e Lancaster (i due protagonsti): al primo serve un punto di riferimento (reduce dalla seconda guerra mondiale alcolista e un po'psicotico) e al secondo serve una "cavia" (il Maestro, fondatore di Scientology, Ron Hubbard).
Nella penultima scena il Maestro gli chiede di restare, o sparire per sempre, gli rivela di aver ricordato della loro amicizia in una vita precedente; poi improvvisamente smette di parlare e canta una canzone d’amore: «Vorrei portarti su una barca in Cina, tutto per me, portarti e tenerti tra le braccia». Sembrerebbe e credo sia una scena d'amore, insieme quasi si identificano, bestie selvagge che vogliono addomesticarsi. Metafora, i protagonisti, di una società incapace di crescere ed evolversi, di rendersi libera senza la presenza di un maestro, dalla coscienza soggetta all’archetipo della guida, del modello, impossibilitata a dimenticare i peccati del passato, le colpe dei padri. Immenso, ma anche vuoto. Il bersaglio per me è mancato. O posso riprovarci con la terza visione.

sabato 29 dicembre 2018

Capri-Revolution di Mario Martone. 2018

Una comune di artisti e giovani -capitanata da un guru bello, biondo e americano che sembra Jesus Christ Superstar- vive tra le montagne di Capri all’alba della prima guerra mondiale. Una pastorella del posto entra in contatto con il sopracitato guru vegetariano/utopista/ecologista/nudista/spiritualista orientale e finisce per scoprire se stessa in quanto donna non più soggetta ai padroni maschi di casa (i due fratelli maggiori) L’aspetto più interessante di Capri-Revolution è il legame con Noi credevamo e Il giovane favoloso, cioè la necessità di riflettere sul Tempo e la Storia. Nel raccontare gli eventi che anticiparono e seguirono il Risorgimento, Noi credevamo tracciava una riflessione sul tradimento della lotta partigiana nella società post-costituente; e Il giovane favoloso oltre a trasformare in immagini la biografia di Giacomo Leopardi, ce lo infiocchetta come se si trattasse di un esponente della cultura punk di fine anni Settanta. Qui, invece, Martone si concentra sul fallimento dell'utopia sessantottina: il pittore Karl Wilhelm Diefenbach creò sul serio una comune a Capri nei primi del Novecento, anticipando gli hippie. Troppa carne al fuoco: Lucia e la sua rivalsa di contadinella analfabeta , il conflitto culturale tra la comune e la cittadinanza, i rivoluzionari russi esuli che stanno preparando il 1917, l'arrivo dell'elettricità sull'isola, il papà di Lucia che si ammala in fabbrica, il pacifismo di Seybu, l’interventismo socialista del medico, la Grande Guerra. Temi rispettabilissimi e degni di nota, ma il regista insiste ossessivamente sulle pratiche naturiste dei membri della comune, che vagano nudi per gli scogli, improvvisando coreografiche. Troppe, estenuanti.
E l'erotismo? La carne? La materia? Questo film non ha pancia, non trema, è didascalico, spiega e suggerisce risposte, esce fuori solo l’innamoramento di Martone per ciò che fa, per come posiziona la macchina da presa, per come crede di esplorare un grande messaggio, ma che poi non arriva mai. Unico dialogo ben scritto lo scambio di vedute tra Seybu e il dottore sul concetto di rivoluzione, in cui vengono messi alla berlina entrambi gli estremismi: il dogmatismo interventista da una parte e quello isolazionista dall’altro. Il film ha tante piccole rivoluzioni inesplose, l'unica miccia che prende fuoco è la storia personale della pastorella Lucia (Marianna Fontana), che imparara a leggere e a parlare in inglese. Incredibile il suo volto estremamente cinematografico e di un bellezza disarmante. Non si riesce a toglierle gli occhi di dosso. D'effetto la chiosa: un'anfora cade, la guerra è cominciata, simbolo di una scossa tellurica che annuncia una nuova epoca, è l'addio a un equilibrio. E bellissime le parole della mamma di Lucia: "ho sempre saputo com'eri Lucia, ti ho sempre sentita scappare di notte. E anche io avrei voluto essere là, con te".

domenica 7 ottobre 2018

Anomalisa di Charlie Kaufman, Duke Johnson. 2015

"Synecdoche, New York" mi aveva del tutto spiazzata, confusa, stremata. Perchè, diciamolo, Kaufman esplora la mente umana come nessuno. Le nostre paranoie, quelle che ci spaventano. Anomalasia è un tributo proprio alle nostre paure, è un'empatica sensazione di malessere. Siamo tutti pupazzi, fatti di ricordi, rimorsi, istinti. E l'amore è solo una voce che suona diversa da tutte le altre, che dura anche solo per un giorno. In stop-motion Michael arriva a Cincinnati, è un guru del “customer service”, ha scritto un libro e una conferenza lo attende. Ma uno straniamento lo sta facendo letteralmente a pezzi: beve troppo, contatta goffamente una sua vecchia fiamma che vive lì, parla malvolentieri al telefono con moglie e figlio, stenta a riconoscersi nel riflesso dello specchio. Per lui (e per noi che le ascoltiamo) tutte le voci sono identiche: salvo quella di Lisa,una giovane non bella, ma diversa da tutti. Lisa è l’anomalia, la luce che si accende in fondo al tunnel, per liberarlo dalla sua prigione esistenziale. Viene descritta la sindrome di Fregoli (e "Fregoli" è proprio il nome dell'alienante hotel dove Michael alloggia), malattia psichiatrica di chi non riconosce le persone anche a lui più vicine, come se fossero mascherate - e non è un caso che i pupazzi animati abbiano il volto segnato da solchi simili a quelli di una maschera. Anomalisa è un film sul rumore, -metaforico- che disturba il canale delle comunicazioni di noi con noi stessi e di noi con il mondo. Quel rumore siamo noi.
Noi così social, che abbiamo smesso di essere individui. Molto bello, strano e destabilizzante, come la scena di sesso tra i due pupazzetti antropomorfici protagonisti. Di una tenerezza tagliente. Studiare tutto nel dettaglio per mettere ogni cosa fuori posto. Solo Kaufman può

sabato 29 settembre 2018

Battle of the Sexes di Jonathan Dayton, Valerie Faris. 2017

Ho adorato Little Miss Sunshine, così ho recuperato La battaglia dei sessi (degli stessi registi), che ha avuto l'ambizioso compito di riportare alla luce la celebre partita di tennis avvenuta il 20 settembre 1973 tra Bobby Riggs e Billie Jean King Il film ricostruisce l'atmosfera tagliente di quegli anni in campo sportivo, scandendone tutte le tappe, fino ad arrivare al famoso match conclusivo: novanta milioni di telespettatori sintonizzati davanti alla tv per vedere un cinquantenne ex campione di tennis, autodefinitosi 'porco maschilista', sfidare una 29enne campionessa in attività, da mesi in guerra con la federazione tennistica americana per riconoscere a lei e alle sue colleghe un compenso pari a quello maschile. Billie Jean in seguito, infatti, ruppe con la federazione tennistica per fondare la Women’s Tennis Association, inizialmente considerata illegale, diventando la prima tennista a guadagnare oltre 100,000 dollari all’anno. Negli anni settanta erano già nati negli Stati Uniti, sull'onda del famoso 68' europeo e mondiale, il movimento femminista e la rivoluzione sessuale. In questo contesto nacque negli anni settanta nell'ambiente tennistico statunitense l'idea di fronteggiare queste richieste per avere una retribuzione equa tra uomo e donna ed i movimenti femministi correlati con delle sfide dimostrative sul campo da tennis .
Settantatre. Anno epocale per noi femministe: venne approvato il Titolo IX della Costituzione, che ratificò la parità dei diritti fra uomo e donna, e la Corte Suprema emise una storica sentenza sul diritto all’aborto. Il resto è storia, il resto è Billie Jean King. Femminista convinta, lesbica, vorace sportiva, interpretata da un'ineccepibile Emma Stone. Contro l'egocentrico e narciso Bobby Riggs, uno scommettitore seriale mantenuto dalla ricca moglie, che attacca le tenniste, perchè "umorali e inadatte a reggere emotivamente una gara contro un uomo" e che sfida col fine di dichiarare la sua presunta superiorità ( ma a fior di sponsor ovviamente) Entrambi indossano una maschera di fronte al mondo e agli altri, che calano solo quando scendono con una racchetta in mano nel rettangolo da gioco. Lì, in quell’istante, sono liberi, e si rivelano per ciò che sono: in fondo un po'uguali. Entrambi incostanti nei rapporti umani, soli perché incapaci di legarsi veramente a qualcuno. Impossibile non pensarre a Serena Williams e all'unicità delle tenniste, icone assolute di femminismo. Vi adoro.

martedì 25 settembre 2018

A Bigger Splash di Luca Guadagnino. 2015

Che Luca Guadagnino sia un egocentrico ce lo dicono i suoi film, soprattutto "A bigger splash". Potrei annoverare questa sua pellicola tra le peggiori del regista, il difetto è soprattutto della sceneggiatura di David Kajganich, rarefatta, troppo inconcludente, troppo grossolana, con battute veramente infantili ("siamo tutti osceni"). Il film deve il suo titolo ad un quadro di David Hockney, che raffigura appunto uno spruzzo in piscina, dovuto ad un tuffo appena avvenuto, un gesto impetuoso. Ed è questa la chiave della storia: gesti impetuosi, di pancia, istintivi. La trama è ispirata, invece, ad un film piuttosto simile, ma qualitativamente migliore: “La piscina”, film francese del 1969 firmato da Jacques Deray e interpretato da Alain Delon, Romy Schneider, Maurice Ronet e Jane Birkin. Una processione religiosa, in cucina del cibo di voluttuosa bellezza. Questo è quello che funziona. Per il resto c'è una piscina, un morto e quattro snob: una cantante rock famosissima, il suo ragazzo fotografo toyboy, il suo produttore e la figlia di questo (l’unica che risulta convincente, Dakota Johnson nei panni di una Lolita con un’indole fragile e sensibile) in una villa a Pantelleria in estate.
L’intesa erotica tra la protagonista Marianne e il fidanzato è fortissima: passano le intere giornate praticamente nudi nel giardino della loro villetta, presi da un sano e dolce far niente. Riesce a far peggio il maresciallo Guzzanti. Quando Marianne, la rockstar protagonista, gli fa intendere: forse l'autore del delitto è uno dei clandestini dell'isola, lui le risponde "li abbiamo già offesi molto, questo non potrà offenderli di più", goffo tentativo di voler strizzare miseramente l'occhio alla problematica "clandestini". Ma non bastano questi accenni per fare di te un intellettuale impegnato, caro Guadagnino. Regia mediocre, patinata e finta

venerdì 21 settembre 2018

Dogman di Matteo Garrone. 2018

Il film si apre con le fauci ringhianti di un minaccioso pitbull. Di fronte a lui, un omino che prova ad ammansirlo, “amore, amore”, “bravo, bravo”, per lavarlo e asciugarlo. Intorno, nel quartiere, ComproOro, sale di slot machine, palazzi d’asfalto non rifinito e un perenne clima uggioso . Si stanzia qui il salone per cani Dogman in cui Marcello, tra infissi in alluminio e attrezzi di lavoro un po'alla buona lava, pulisce e sistema cani con un amore infinito. La storia è quella di Pietro De Negri, detto er Canaro, proprietario di un negozio di toelettatura per cani alla Magliana: trent'anni fa esatti, stufo di essere vessato e umiliato da Giancarlo Ricci, lo rinchiuse in una gabbia per cani sul retro del suo negozio e lo uccise senza pietà, amplificando poi il racconto con gli inquirenti. Le indagini tuttavia appurarono che una gran parte di quanto riportato era stato frutto di fantasia e che soprattutto le mutilazioni furono inflitte sul corpo morto. Matteo Garrone ripesca questo delitto, lo studia, suggestionanto anche lui sicuramente dalle personalità forti che ne furono protagoniste, decidendo di soffermarsi principalmente su quanto illusoriamente er Canaro aspirò col suo gesto ad una redenzione personale.
Gli spazi che occupano i due protagonisti sono tali da mettere in evidenza la loro differente conformazione fisica: da pugile e massiccia quella di Simone (Ricci), rachitica e innocua quella di Marcello (er Canaro): in nessun momento si è portati a pensare che Marcello possa essere una minaccia per Simone. Anche perché Marcello è sensibile, mite (non come il vero Canaro), un uomo tranquillo. Ama i cani Marcello, si prende cura di loro con amore. Saranno proprio loro i testimoni involontari della bestialità umana, in silenzio assistono alle torture e diventano così l'emblema dell’insopprimibilità dell’istinto. Ciò che emerge è che Marcello non ama abbastanza se stesso ,non dice mai di "no" a Simone e il corpo esamine che nelle scene finali lui brandisce come un trofeo sulle spalle, lo schiaccerà fino ad opprimerlo. Il suo è uno straziante bisogno di essere amato, di riappropiarsi di quel microcosmo che lo faceva sentire vivo. E difficilmente riuscirete a dimenticare gli occhi del Canaro, una maschera che sembra rubata da un film di Pasolini. Straziante.

mercoledì 5 settembre 2018

Logan di James Mangold. 2017

Non ho mai guardato film sugli X-men. E già l'esordio mi predispone male a scrivere qualche riga su Logan. Ma ci provo. E'il canto del cigno di Logan, il suo estremo saluto. Si sta per scrivere la parola The end. Anno 2029: Logan è malconcio, invecchiato, non veste più i panni dell'eroe da molto tempo. Il mutante ora fa l'autista di limousine e accudisce il novantenne Xavier in una cittadina messicana. Il suo vecchio mentore soffre di una non precisata malattia degenerativa del cervello e, con i suoi poteri, sarebbe rischioso tenerlo all'aria aperta, così Logan lo ha confinato in una cisterna.
I Reavers, scagnozzi che lavorano per la multinazionale Transigen, intenzionata a controllare la mutazione per usarla come arma, bussano alla loro porta. Una donna messicana segue Logan, vuole il suo aiuto: apparentemente un passaggio per il North Dakota, del resto lui è un autista ormai. Ma la morte della donna lascia presagire dell'altro. Ma la vera protagonista è X-23, una bambina mutante di nome Laura che ha gli stessi poteri rigenerativi di Wolverine, con tanto di artigli. Come altri bambini "speciali" è nata e cresciuta in un centro genetico. Questa ragazzina ha uno sguardo che buca lo schermo e sembra fatta, o meglio “creata” apposta per questo ruolo. Una piccola e feroce perfetta “Wolvi” in miniatura che sogna la libertà e brama più di ogni altra cosa l’amore che le è stato negato sin dalla nascita. Lotta al razzismo e alla paura del diverso. Un film che mi ha spiazzato perchè da questo genere non mi aspettavo una grande anima. Che, invece, troverete. Da oscar il montaggio sonoro.

martedì 4 settembre 2018

Paradies: Liebe di Ulrich Seidl. 2012

Un po' cinico e volgare, a volte crudele. Perchè è la verità ad esserlo. Ma vincente, come la scelta di girare un film di finzione come fosse un documentario. Gli autoscontri e un gruppo di disabili, la provincialità, l'emarginazione, la bruttezza esteriore, quotidiana, distruttiva Qui non c'è spazio per la magia cinematografica, la pellicola lavora di sottrazione, il quadro è fisso: gli effetti dell'economia e la cultura occidentale.
Va, infatti, in scena il turismo sessuale praticato da attempate signore austriache e tedesche. Ma chi è la vittima, chi il carnefice? Il viaggio di Teresa in Kenya è un safari, è una caccia a uomini che sono visti come animali. Hakuna matata, non ci sono problemi, le signore hanno i soldi e il materiale umano abbonda, arrendevole, corrotto per bisogno, a sua volta cinico, ma senza scelta. Degrado, umiliazioni, disgusto e pietá. Le pieghe massicce del corpo di Teresa e le ossa sporgenti del giovane offerto dalle sue amiche come regalo di compleanno. Un cinema antiborghese volto a smascherare quel finto benessere insito in molti europei.Teresa è sola: la figlia dimentica di chiamarla il giorno del suo compleanno, cerca dolcezza mentre fa sesso, moralisti e sentimentali i suoi lunghissimi preliminari, umiliante quando al festino il giovane del posto non raggiunge l'erezione. Subito dopo, il rifiuto del barista in camera da letto di praticargli un cunnilingus, la sconfitta finale, la perdita della dignità, la maestosità nel lasciarsi vincere dal disgusto verso se stessi. Funziona. Perchè per quanto un po'confusi, si vuole solo andare avanti nella visione per capire dove siamo finiti, senza accorgercene.

venerdì 27 aprile 2018

Silent Souls di Aleksei Fedorchenko. 2010

"Se la tua anima soffre, scrivi delle cose che vedi intorno a te."
Freddo visivo e corpi silenti in viaggio per la purificazione. Un uomo, di spalle pedala in mezzo al bosco diretto verso casa con una gabbia con due uccellini ("zigoli" è la traduzione di "Ovsyanki", titolo originale del film) fissata sul portapacchi della bici. Poi parte con il suo amico e gli uccelli per sepellire la moglie dell'amico e un lungo piano sequenza ci mostra Miron teneramente occupato nel lavare il corpo della moglie con la vodka, mentre Aist prepara delle treccine colorate con cui ornare i peli pubici della donna, un'usanza Merja che le damigelle svolgono allo stesso modo con la sposa il giorno del matrimonio. Sono entrambi ad avere amato Tanya e a raccontarsi le reciproche solitudini, nell'abitacolo di quell'auto, con Tanya dietro avvolta teneramente in una coperta. Fuori paesaggi desolati, dentro il cinguettio degli uccelli chiusi in gabbia. Non c'è nessuna rivalità fra i due uomini, soltanto rispetto reciproco e condivisione del dolore. Compiuto il rito della sepoltura: le ceneri di Tanya vengono cosparse nel fiume, da tradizione- e a Molochai ("una città triste e dolce, per noi, come Parigi per gli europei") trascorrono la notte con due prostitute, "perché il corpo vivo di una donna è come un fiume che trascina via il dolore" e privarsene è solo una conseguenza dell'istituzione del peccato. Due le scene memorabili: il flashback della sposa "senza volto", con la veste alzata, che permette alle damigelle di ornarla, lo slittino che trasporta la macchina da scrivere, la splendida sequenza di immagini che descrivono la città di Molochai. Esempio di Poesia che salva.

giovedì 26 aprile 2018

Jackie di Pablo Larrain. 2016

Chi è davvero la ex signora Kennedy?Jackie non è una Kennedy, lo è solo in maniera acquisita. E morto suo marito rimane quindi "soltanto" una donna senza più nulla, se non i propri figli. Quanta ipocrisia c'è in Jackie? Quanto vero dolore? Quanto narcisismo? Il regista risponde con una lunga intervista. Una donna a cui guardiamo con diffidenza, come il giornalista che la intervista a una settimana esatta dal "fattaccio". Affranta, afferma che il marito a volte andava "nel deserto per essere tentato" ma poi "tornava sempre dalla sua amata famiglia", trasfigurando biblicamente i tradimenti del marito, pur essendo ben consapevole dell'ipocrisia intrinseca a questa visione delle cose. "E io non fumo", dice con la sigaretta alla mano. Perchè la tragedia di Jackie è proprio questa: la consapevolezza -che la straordinaria Portman rende con i tantissimi primi piani- del dover ogni giorno raccontare una favola. Al sacerdote che officerà le esequie del marito (John de Maria nella sua ultima apparizione sullo schermo) rivela: "Tutto quello che ho fatto per il funerale non è per lui, né per il suo lascito, ma per me". Per non essere dimenticata - emblematica la scena in cui guarda dei manichini con la sua stessa pettinatura-
vorrebbe gli stessi funerali che furono di Lincoln, presidente assassinato anch'egli durante il proprio mandato. Jackie mira a ricreare una seconda Camelot, la mitologica reggia di Re Artù, perchè ormai è sola e l'unica risposta è procedere all'edificazione del mito: raccontare al mondo una favola per coprire le ombre, facendosi in definitiva attrice della stessa grande ipocrisia che ha messo lei sotto scacco. Fenomenale la sceneggiatura di Noah Oppenheim (premiata a Venezia) accompagnata dai toni bassi e distorti delle notevoli musiche di Mica Levi

venerdì 20 aprile 2018

L'ordine delle cose di Andrea Segre. 2017

Un funzionario ministeriale e la questione libica degli sbarchi di migranti, provenienti dalle coste del territorio nord africano, con tutte le attività politico-diplomatiche con le quali il nostro governo sta cercando di convincere le autorità della Libia a collaborare per arrestare il flusso di persone che ogni giorno si imbarca in direzione del nostro paese. Con l'aggiunta della complicità di chi lucra sul traffico illegale di vite umane nel Mediterraneo. Più denaro europeo ai libici per migliorare l’accoglienza e ampliare la ricettività, frenare il loro stesso affarismo nel traffico di disperati, bloccare gli imbarchi già nelle loro acque territoriali riportando indietro i migranti. In uno status di accoglienza da leggersi però come detenzione.
Corrado bada all'"ordine delle cose" però: piega perfettamente le camicie sul letto,colleziona ampolle con la sabbia delle spiagge visitate nel mondo. Perchè lui sa come difendersi e quando attaccare, ha praticato la scherma in dimensione olimpionica. Poi però incrocia Swada, una giovane somala cui là dentro le guardie hanno ammazzato il fratello, che lo scongiura di aiutarla a raggiungere il marito in Finlandia. Tentenna, ma poi non cambia le cose. Quello che rimane, nella fissità di un breve piano sequenza è l’indifferenza, il cinismo e i nostri occhi volontariamente chiusi. Poca poesia, molta realtà

giovedì 22 marzo 2018

Maria Maddalena di Garth Davis. 2018

Maria Maddalena è uno dei personaggi ancora più discussi, di quelli su cui si pensa di saper tutto, quella su cui tantissimo si è detto. E non sempre a ragione. Poi la Pasqua si avvicina e, come ogni anno, sentiremo il suo nome durante i brani della Passione. Come voi, di lei so poco, ma da questa sera ho una certezza, tutte le volte che penserò a lei, penserò a Rooney Mara Daily perchè la incarna in maniera esemplare, con il suo corpo esile, i suoi occhi intensi che dicono "No" ad una convenzionale vita terrena per dirigersi verso il profondo, l’essenziale, la verità cristiana. Maria Maddalena rifiuta il matrimonio combinato dalla sua famiglia, contrae mani e polsi durante la festa di fidanzamento, senza capire ancora perfettamente quello che desidera. Fu proprio questo suo spirito indipendente e la confusione evangelica con altre Maria fecero pensare a San Leone Magno che si trattasse di una prostituta. Oggi l'immagine di questa donna così importante nella vita del Cristo è stata ampliamente rivalutata, non solo dalla chiesa ma anche dalla storia che ne vede una femminista ante litteram, capace di ribellarsi ai ruoli precostituiti, ed intraprendere un cammino di conoscenza religiosa, intimistica e psicologica.
Joaquin Phoenix è bellissimo anche in sovrappeso, ma sembra in realtà più un barbone ubriaco, abituati come siamo alla bellezza perfetta del Gesù di Zeffirelli. Qui Gesù ha la pancetta, è cupo, poco rassicurante e solitario, ha un'insicurezza disarmante e affascinante, vera. Che la religione ad oggi non possa essere raccontata al cinema aderendo alle dottrine istituzionali è quasi un dato di fatto, animismo spiritualista, moderno. Questo ci troveremo. Con Maria Maddalena che irride quasi i discepoli, boccaloni illusi che credono al regno dei cieli come un grande effetto speciale che deve materializzarsi da un momento all’altro pronunciando le parole magiche. Ci piace anche Pietro che ha la pelle scurissima. Se c'è qualcosa da ribaltare, insomma, questo film lo fa. E se a Pasqua dobbiamo davvero rinascere, va bene così.

lunedì 8 gennaio 2018

On Body and Soul di Ildikó Enyedi. 2017

Un film assolutamente cerebrale, dove psicanalisi, surrealismo, animalismo diventano un unicum. Un po'dark commedy Due cervi nella neve. Tutto bianco. E il sangue rosso vivo del mattatoio. Endre e Mária. Lui è il direttore finanziario, lei la responsabile alla qualità. Nella vita reale sono goffi e impediti, quindi si incontrano nei loro sogni. Lui ha un problema a un braccio, lei invece è incerta ad ogni passo. Parla poco, ha una memoria incredibile e poi da sola, a casa, con dei giocattoli ricrea quello che ha vissuto durante il giorno o quello che vorrebbe vivere. Difficile stabilirne un contatto e così la regista ungherese si dimostra interessata alla rappresentazione naturalistica del sentire, soffermandosi sulla masticazione dei cervi, sul rumore della neve scossa al loro passaggio, sul respiro. Premiato, un po' generosamente, con l'Orso d'oro al Festival di Berlino.

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