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domenica 8 gennaio 2017

Confessions di Tetsuya Nakashima. 2010

«mia figlia è stata uccisa, e i due assassini sono in questa classe».
Le parole sono dell'insegnante, che si congeda in questa sua ultima lezione, senza però non lasciar presagire il sapore della sua vendetta di madre. Il gessetto stride ferocemente sulla lavagna. L’ideogramma tracciato dall’insegnante, “vita”, si traduce in un suono sgraziato e urticante che attira finalmente l’attenzione di una classe più che distratta. I due mostri sono Studente A e Studente B. Non sappiamo da subito chi siano, ma ne avvertiamo l'ambiguità; si scambiano sms con su scritto frasi del tipo: «Io so chi è il colpevole», chiosati da emoticon a forma di cuore e capiamo, che nonostante sia morta una bambina, per loro l'intera vicenda altro non è che l'ennesimo gioco.E' un film interessante per chi voglia avere una panoramica sul disastroso stato di disgregazione sociale che il Giappone si trova a vivere dagli anni '80 a questa parte. Il film denuncia la legge secondo la quale i minorenni sotto i quattordici anni non debbano pagare per i propri omicidi, un provvedimento vecchio rispetto ai tempi che corrono, dove i giovani sono molto più svegli e più intelligenti (o disturbati?) di quanto non lo fossero stati in passato. Sicuramente molto più psichico di quanto voglia essere vendicativo. Un piccolo capolavoro. Di narrazione ed estetica.

martedì 20 dicembre 2016

The Housemaid di Im Sang-soo. 2010

Il film si apre con la protagonoista che osserva una sagoma sull’asfalto e le tracce di sangue lasciate qualche ora prima dal corpo esanime di una ragazza che si era suicidata buttandosi da un palazzo. Quasi una visione rivelatrice. Come suggerisce il titolo (e come sanno bene quelli che hanno visto l'originale) al centro della storia c'è una domestica, Eun-yi, la bellissima Jeon Do-yeon (전도연), attrice superlativa. La giovane viene assunta come aiutante dalla signora Cho, governante nella casa del ricchissimo signor Hoon, che ha un debole verso la ragazza e, complice anche l'avanzata gravidanza della consorte, la seduce. Fin quando la giovane scopre di essere anche lei in dolce attesa.si trova contro l'intera famiglia che vuole farla abortire (con tutti i mezzi); soprattutto la suocera, una MILF paurosa -si stenta a credere sia la madre- vero e proprio diavolo che a costo di mantenere sua figlia in quella gabbia d'oro è pronta a tutto; odierete moltissimo la vecchia governante che solo apparentemente pare personaggio positivo, mentre in realtà è più subdola di quello che sembra.Euny è l'incarnazione della purezza, l'unico personaggio veramente libero, la sola che non si sottomette mai, che reagisce a quanto gli viene fatto. La sua vendetta è sottile, atta ad arrecare un danno non fisico ma psicologico.
Non è un capolavoro, nonostante io adori i film coreani e non riesco mai a non essere di parte, ma alcune sequenze sono straordinarie: su tutte quella con lui fermo alla soglia di quelle due stanze, da una parte la moglie incinta simbolo estremo di stabilità familiare e "conformismo", dall'altra la domestica che pulisce il bagno con quelle gambe pericolosamente mostrate, simbolo di possibile trasgressione e fuga alla routine. Che fascino!! Sublime colonna sonora, vale da sola la visione del film.

mercoledì 14 ottobre 2015

Cattivissimo me di Pierre Coffin, Chris Renaud, Sergio Pablos. 2010

“Mi piace, è simpatico!” esclama la piccola Agnes sul punto di addormentarsi. “Ma fa paura...” controbatte la diffidente Edith. Agnes allora ci pensa un po’...“Come Babbo Natale!”. Parlano di Mr Gru, protagonista e ladro "cattivissimo" che vorrebbe commettere il più grande crimine di tutti i tempi: rubare la luna. Invece, commette delle cattiverie che tutti noi, ce ne fosse la possibilità, commetteremo: congelare le persone in fila davanti a noi per non dover aspettare o schiacciare tutte le altre auto per trovare subito posteggio. Cattiva è la Signorina Hattie, responsabile dell’orfanotrofio, che dietro il suo placido aspetto e la sua voce chioccia, nasconde un natura sadica, umilia i suoi piccoli orfani, gli nega anche la speranze di una famiglia,gli fa pagare la retta mandadoli a vendere biscotti porta a porta e chiude nello scatola della vergogna chi ha racimolato meno denaro di tutti. Cattiva è anche la mamma di Mr Gru, una madre fredda ed ipercritica che non riserva mai un gesto affettuoso o una parola dolce a suo figlio, che frustrato ed infelice, spera di trovare la sua approvazione compiendo atti sempre più criminali. Pessimo il doppiaggio di Max Giusti.

giovedì 2 ottobre 2014

Blue Valentine di Derek Cianfrance. 2010

è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati”. (De Andrè)
Cindy e Dean sono una coppia sposata. Lei è un’infermiera, lui un imbianchino. Hanno una figlia, Frankie, e un cane. Sono una famiglia ordinaria: ma tutto sta andando a rotoli, e l’armonia si è spenta da un po’. Ripercorriamo la nascita della loro storia d’amore, quando i due erano giovani: lei studiava per diventare medico, mentre si prendeva cura della nonna in Pennsylvania; lui lavorava in una ditta di traslochi a New York. S’incontrano per caso, lui la corteggia, s’innamorano. Passato e presente s'intrecciano con due fotografie diverse e due rapporti diversi: se prima Cindy è solare e innamorata, dopo non basterà la notte di sesso e alcol programmata da lui in un motel squallido e kitsch (nella “stanza del futuro”…) per cambiare o distendere la situazione. Il titolo è quello di un album del 1978 di Tom Waits, in cui il cantautore americano cantava la fine di un amore ancora forte nei suoi ricordi. Anche qui è così. Autopsia di un amore. Radiografia di una coppia implosa. Blue Valentine è un film indie molto intimo che racconta una storia piccola di una coppia come tante che affronta una crisi di quelle potenti. Ispirato al divorzio dei genitori del regista Derek Cianfrance, interrotto a causa della scomparsa di Heath Ledger (ex-compagno della protagonista Michelle Williams), Blue Valentine sembra essersi nutrito di un dolore che non appartiene al mondo della finzione e riproduce un’aspra verità a cui spesso il cinema americano preferisce una versione più patinata. Dean è alcolizzato, fallito, tenta di essere quel buon padre di famiglia che ha sempre promesso a Cindy, e lei è insoddisfatta di lui, della famiglia che hanno creato assieme (e che tanto assomiglia alla sua…), e forse anche del suo lavoro. Film depressivo fino al midollo, dove la routine del quotidiano logora ogni passione, e ogni frase può essere usata come un’arma contro l’altro, è invece emotivamente più complesso. Piace tanto, Blue Valentine, perché, nonostante tutta la parte finale sia una discesa in un incubo realista, ci fa comunque vedere cose bellissime, rese ancora più preziose dal rapporto che hanno con gli orrori della vita che non ci vengono risparmiati. Perché affiancato all’immagine di un uomo che piange disperato, c’è un tip tap improvvisato sulle note di un ukulele nel cuore della notte. Anche l'amore vero può finire: se lui dorme sul divano e porta perennemente gli occhiali scuri, disfatto da Bacco e tabacco, ma ancora innamorato della sua distante Venere. Più che dissoluto, è un uomo in dissolvenza: un talento sprecato per orizzonti troppo angusti, nei quali, però, esercita con tenerezza e devozione il magistero paterno con la piccola Frankie, che stravede per lui. Lei, Cindy, precocemente incinta, in un’età in cui sognare era ancora lecito, è una moglie sull’orlo di una crisi di nervi ed una lavoratrice insoddisfatta. Un potenziale pittore che fa l’imbianchino, una potenziale dottoressa che fa l’infermiera: a volte la vita non va come si vorrebbe. Specie quella di coppia. Lui tenta un cunnilingus sotto la doccia di Dean: “come up”, le impone la moglie nuda, allontanando il non più riamato amante. La vagina di Michelle Williams è letteralmente il luogo dell’inviolabilità, il rifugio che resta a Cindy dopo l’organo un po’ più up, il cuore, è stato in qualche modo tradito. Il mancato aborto, con il dottore che infila la mano nell’utero e Cindy che cambia idea, è il primo sintomo di u-turn, di uno spazio intimo che comincia a rigettare il maschio. Che si riappropria dei suoi spazi intimi. Il dottore esce fuori dalla stanza. E anche Dean farà quella fine. Emozionante e autentico: da non perdere.

martedì 30 settembre 2014

Séraphine di Martin Provost. 2010

"La pittura è scomparsa nella notte".
Se come me credete che l'arte sia un mistero, questo è il film che fa per voi. Sette César vinti non sono pochi; si tratta infatti dei premi nazionali di una cinematografia - quella francese - che non teme rivali quanto a qualità media delle pellicole prodotte. Qui l'arte è ispirazione divina, un talento naturale e necessità, una forza che tutto soggioga. Séraphine Louis è una donna umilissima con un talento prodigioso per la pittura.Lavora come serva e lavandaia, ma ha dentro una sensibilità singolare nei confronti della natura e un mondo ricchissimo che poteva essere espresso solo tramite la pittura. La miseria che racimola ogni giorno la spende per trovare i colori per la tela e non per mangiare, non ha carbone per scaldarsi. E’ una necessità che nasce da dentro ed è personale, non c’è ricerca di approvazione o ammirazione, lei dipinge solo per se stessa. A scoprire, in maniera del tutto casuale, questo talento è Wilhelm Uhde, collezionista e critico d’arte, tra i primi a comprare opere di Braque e Picasso e scopritore di Henry Rousseau. Il punto di vista del film è proprio quello del critico: noi, infatti, conosciamo Séraphine solo attraverso il suo contatto con Uhde, la prima volta nel 1912, quando il collezionista arriva a Senlis e riconosce il suo talento, Séraphine già dipinge, "... è stato il mio angelo custode a suggerirmelo", noi non sappiamo nulla di lei, il suo passato è un mistero e tale resterà. Quando poi Uhde deve scappare a causa della guerra, non sappiamo più nulla di Séraphine, è solo nel 1927, quando il critico nuovamente la incontra, che torna in scena. La sua incredibile evoluzione artistica, dalle prime piccole e stentate nature morte, alle opulente composizioni naturali è un enigma.Il collezionista contribuirà a distruggere la sua persona, mostrando la parte peggiore dell’arte: la creazione del culto della personalità dell’artista al solo scopo di guadagnare denaro. Séraphine è inconsapevole. Prima non vuole credere: “I ricchi sono sempre entusiasti”, poi cede e finisce per essere travolta e schiacciata da qualcosa più grande di lei.Morirà in un manicomio, tradita da un Uhde incapace per la crisi economica a far fronte alla sua pazzia. Straordinaria la bravura di Yolande Moreau nel rendere la goffaggine, la malagrazia, lo spirito scontroso ed eccentrico di Séraphine, si prova quasi avversione verso la sua figura, così sporca e trasandata, eppure i suoi quadri erano di una ricchezza e di una bellezza che lascia ancora oggi senza parole. Non tutti gli artisti sono pazzi, né, tutti i pazzi, artisti. Non è raro, però, che la follia vada a braccetto con la pittura, la musica, la letteratura. Ed è spesso da un´ossessione che scaturiscono colori, nascono forme, parole, note. Le ossessioni di Séraphine Louis erano addirittura due. Dio e la natura. Lei le fece coincidere. E magistralmente.

lunedì 8 settembre 2014

La donna che canta di Denis Villeneuve. 2010

"La matematica, come l'avete conosciuta fino a oggi, ha cercato di fornire risposte certe e definitive a problemi certi e definitivi. Ora state per affrontare un'avventura totalmente diversa: vi troverete di fronte problemi insolubili che vi porteranno sempre verso altri problemi altrettanto insolubili. Le persone intorno a voi vi ripeteranno che la cosa su cui vi scervellate è inutile: non avrete argomenti per difendervi, perchè quei problemi saranno di una complessità estenuante. Benvenuti nella matematica pura, nel paese della solitudine". [Dominique Briand]
You and Whose Army? dei Radiohead (dall'album Amnesiac del 2001) e lo sguardo spento e ferito di bambini che vengono rasati...Parallelismi tra matematica e vita. Poi Medio Oriente, un non-luogo mai veramente specificato. E due gemelli - che per volere della madre appena morta- vi si recano. Un regista un po'sciatto, che dedica poco spazio alle riflessioni personali - tante ne nascerebbero in questo film. La madre da giovane - "la donna che canta"- e la figlia si somigliano in modo sbalorditivo, passato e presente si alternano in maniera disorientante. Al notaio Jean Lebel la donna che canta scrive:" seppellitemi senza bara, nuda e senza preghiere, con il viso rivolto al suolo, spalle al mondo. Lapide ed epitaffio: sulla mia tomba non ci saranno lapidi e il mio nome non sarà inciso da nessuna parte. Nessun epitaffio per chi non mantiene le promesse. A Jeanne e Simon: l'infanzia è un coltello piantato in gola che non si tira via facilmente. Jeanne, il notaio Lebel ti consegnerà una busta: questa busta è destinata a vostro padre. Ritrovalo e consegnagli la busta. Simon, il notaio ti consegnerà una busta: questa busta è destinata a vostro fratello. Ritrovalo e consegnagli la busta. Quando le buste saranno state consegnate ai loro destinatari, vi sarà data una lettera: il silenzio verrà rotto, una promessa mantenuta e sulla mia tomba potrà posarsi una lapide e su di essa il mio nome, alla luce del sole". Quindi due uomini: un padre e un fratello da trovare:ma è sul serio così? IL disonore di una gravidanza nata dall'amore con Wahab, un uomo di un'altra religione, poi la guerra, fino al suo trasferimento obbligato in città dopo il parto, agli studi e all'inizio di una nuova vita. Trentacinque anni dopo, la figlia vi ritorna: apprende che la madre, ai tempi dell'università, scriveva sul giornale studentesco ed era una fervente pacifista: all'inasprirsi delle tensioni tra cristiani e musulmani, cercò tanto quel figlio avuto affidato in orfanotrofio. Kfar Ryat è il nome della prigione nel sud del Paese dove ha scoperto essere stata rinchiusa la donna che canta, ma perchè? E Wahab è suo padre? Nawal, travolta dagli orrori della guerra, in realtà, abbandonò il pacifismo per schierarsi contro i nazionalisti, sostenitori della destra cristiana: arrestata per aver assassinato il loro leader, venne imprigionata a Kfar Ryat. Sua madre era "la donna che canta, numero 72", rinchiusa lì per 15 anni, torturata e violentata dal sadico carceriere Abou Tarek, finchè non rimase incinta. Poi, dopo il parto, venne rilasciata. A Jeanne non resta che tornare a Daresh, dove vive l'infermiera che fece partorire Nawal, per avere le ultime conferme. E scoprirete che "Uno più uno fa due, non può fare uno". Vincitore del Mouse d’Argento a Venezia 2010 e del Miglior film canadese al Festival di Toronto.

domenica 16 febbraio 2014

Beginners di Mike Mills. 2010

Quando sei vero non puoi essere brutto, se non per quelli che non capiscono
Omosessuale a scoppio ritardato, solo a 78 anni e consumato da un cancro ai polmoni. Con un figlio disegnatore Oliver Fields, che a 38 anni incontra Anna, stravagante attrice francese di passaggio a Los Angeles. Film distribuito solo in dvd, penalizzato, senza ragione, perchè prodotto indie, ma di ineccepibile qualità. Salti temporali ad incorniciare quell'anno così decisivo per la vita del regista (la pellicola è autobiografica) il 2003, segnato dalla scomparsa del padre e dall’incontro con una donna che, forse è quella giusta. All’inizio di Beginners il padre di Oliver è già morto, il suo coming out è un flashback ( ricordo che aveva una maglia prugna quando me l’ha detto, ma in realtà aveva una vestaglia frase che sta ad indicare come tutto sia filtrato dalla memoria soggettiva del regista, potenzialmente fallace o manipolatrice). Balliamo su diverse linee temporali quindi, così l’infanzia di Oliver appare solo per frammenti in cui il bambino ha a che fare con la madre, che sparisce dietro una porta proprio ad indicare il trauma mai superato della perdita; così la linea che descrive il rapporto paterno riguarda solo e soltanto il momento successivo alla diagnosi della malattia terminale del genitore. Poi l'incontro con quella donna favolosa, idealizzata, parla con il suo cane, proprio come solo il protagonista sa fare, Tu indichi io guido - che Olivier dice ad Anna all’inizio del film, perchè lei muta in quanto colpita da una laringite- trova la sua origine, verso la fine, nella medesima frase che la madre dice ad Oliver; Anna potrebbe dunque essere non altro che la trasposizione della madre morta. Anche se il regista ha dichiarato di aver incontrato sul serio nel 2003 la donna della sua vita. Anna parla e si muove come lui, quindi tutto è alterato dal pensiero del regista in cui innesta la sua visione: Oliver, Anna e il cane di Oliver. Mike MIlls non fa altro che scavare nella sua memoria, questo film è il frutto della sua intima psicanalisi, lo suggerisce il fatto che alla festa in maschera si traveste da Freud. Suo padre è davvero se stesso solo dopo la morte della moglie, padre e figlio sono dunque i beginners, i debuttanti del titolo, cui si aggiunge Anna, anch’essa alle prese con una storia vera dopo tanto vagabondare inconcludente. Perchè si può essere principianti per tutta la vita, a 75 e a38 anni- sembra suggerire il film. Gondry era molto presente in questo film, chissà se il regista in qualche modo ci si è ispirato, o se io ami tanto Gondry da vederlo in ogni dove. Incantevole anche la colonna sonora dal sapore retrò. Tutto perfetto.

venerdì 24 maggio 2013

La chiave di Sara di Gilles Paquet-Brenner. 2012

A volte le storie che non riusciamo a raccontare sono proprio le nostre Matrimonio non proprio riuscito tra una newyorkese e un francese. Ma dura, sono vent'anni. In questo personale dolore viene innestato quello collettivo dei fatti del Velodromo D’inverno, il luogo in cui la polizia francese, per ordine dei tedeschi, rinchiuse per giorni e in condizioni disumane, migliaia di ebrei parigini rastrellati fra il 16 ed il 17 luglio 1942, in attesa di reindirizzarli verso i campi di concentramento e sterminio nazisti. Quello che vien fuori dalle carte della giornaista (la protagonista) è la storia di Sara, una bambina ebrea di 10 anni che nascose il fratellino Michel nell’armadio quando la polizia fece irruzione in casa Starzynski ed arrestò la sua famiglia. Nonostante i sessant'anni di differenza, le storie di Julia e Sara s'intersecano perchè Julia sta ristrutturando proprio l'appartamento appartenuto alla famiglia di Sara prima della deportazione. Da insegnante di storia posso asserire con certezza che questa è sicuramente una delle pagine meno sconosciute e menzionate, si parla di governo collaborazionista, ma non di questo sterminio. Molto toccante nel film il momento in cui sara bussa alla porta dell'attuale suocero di Julia e trova il fratello nell'armadio morto afissiato. E quindi quella gravidanza tarda di Julia e non voluta dal marito diventa un modo per riscattare la vita dei bambini morti, o andando più sul personale, la vita di Sara poi morta suicida dopo essersi sposata e aver messo al mondo un bambino. Un film scolastico, adatto ai più giovani.

mercoledì 8 maggio 2013

Una vita tranquilla di Claudio Cupellini. 2010

"Domani parti, se tutto va bene avrai una vita tranquilla". Malavita napoletana ma con accento tedesco.Un notevole Toni Servillo. La sua vita tranquilla. La sua nuova vita. Fin quando due giovani provenienti dal suo passato la sconvolgono. Due killer. Si, proprio di quelli che sparano, uccidono senza pietà. Non rivelo nulla di eclatante se svelo che uno dei due è ovviamente il figlio di Rosario, lo capirete subito. Smaltimento dei rifiuti made in Naple. Qualcuno deve essere fatto fuori. Rosario è costretto a ricambiare vita. Il fu Rosario comincia quindi verso la fine del film la sua terza esistenza. Magistrale la scena della cena che precede l'omicidio di Rosario, qualcosa di unico, un gioiellino. chapeau.La paternità negata che rende Diego così fragile dona ancora più fascino al suo personaggio. Ansia, dolore, turbamento. Un film che trasmette. Tanto.

venerdì 4 gennaio 2013

Amore e altri rimedi di Edward Zwick. 2010

Maggie: "Avrò bisogno più io di te che tu di me!" Jamie: "Va bene...!" Maggie: "No! Non va bene! Non è giusto! Volevo fare tante cose!" Jamie: "Le farai, solo che le farai con me!"
Va in onda la vera storia di Jamie Reidy, ex venditore di Viagra per la Pfizer, tratta da "Hard Sell: The Evolution of a Viagra Salesman”. Dopo aver visto il film sulla nascita del vibratore, mi sembrava giusto andare alla ricerca della storia delle pastigliette blu. Ed infatti questo film biografico è condito appunto di molte scene di sesso, molto ben riuscite. Jake ed Anne hanno infatti il pregio di essere molto intensi. A rovinare il quadro una malattia gravissima, per le quali le case farmaceutiche, mostra chiaramanete il film, non s'impegnano a trovare una cura. Intorno al sesso ruota chiaramente molto più business. Morbo di Parkinson. Le assicurazioni mediche statunitensi non coprono questa grave malattia totalmente, denuncia la giovane ventiseinne che sgancia del contante durante le visite. Gli anni Novanta, gli anni vuoti, gli anni degli affari di cose inutili: come appunto il Viagra, la pastiglia più venduta al mondo. Film onesto e schietto.

sabato 15 settembre 2012

Post mortem di Pablo Larrain. 2010

A Salvador Allende.
Santiago del Cile, 1973. Mario ha cinquantacinque anni e vive solo. Parla poco, la sua vita è scandita dal ritmo del ticchettio dei tasti di una macchina da scrivere. Dice di fare il funzionario, ma nello specifico batte a macchina i referti delle autopsie in un obitorio. Ma anche lui sa amare: desidera Nancy, la vicina di casa che lavora in un cabaret. La corteggia, poi l’11 settembre Nancy scompare, mentre per le strade scoppia il caos e il suo lavoro comincia ad intensificarsi: improvvisamente le autopsie cominciano a diventare moltissime in un giorno. Cadaveri, corpi da smembrare, Mario però pensa alla sua Nancy. Un percorso quello di Mario, metafora della sua terra, il Cile nel momento del golpe ai danni di Allende, che comincia ad abituarsi all'orrore e alla morte, come Mario che ogni giorno vede la gente fatta a pezzi e ormai non ci fa più caso. E'lavoro. Lo spettatore viene calato man mano in quest'orrore, grazie anche alla strepitosa fotografia tutta giocata su colori spenti, sul marrone, sul viola dei corpi dei cadaveri: autopsie in primissimo piano, scene di sesso anzi più che altro amplessi desolati dei due scheletrici protagonisti, masturbazione. E Mario nonostante tutto cerca l'amore perchè è alla ricarca in primis di se stesso ("niente relazioni con donne che vanno con altri uomini"), proprio come il Cile che cerca di rivendicare la sua identità. E il mondo occidentale? E'stato solo a guardare. Mario Crede che Nancy sia la sua fidanzata per poi accorgersi tristemente che non è così. E ad Allende viene negato l'esame interno e l’indignazione viene zittita a colpi di pistola. Non c'è speranza. Intorno al morto illustre divise silenti e minacciose. Primissimi piani sul cranio dilaniato di Allende e una fredda analisi inesatta: nessuno osa contraddire il regime, meglio il silenzio o peggio una menzogna. Suicidio. Spazi piccoli, inquadrature sempre asfissianti a simboleggiare che non c'è via d'uscita. Nemmeno la fede: - Nancy: "Ma tu sei cattolico vicino?" - Mario: "Si, quando ho qualcosa da chiedergli. Certo che si".

venerdì 20 luglio 2012

Il cigno nero di Darren Aronofsky. 2010

"La perfezione non deriva solo dal controllo, bisogna lasciarsi andare".
Nina ( la bellissima Natalie Portman) è solo un cigno bianco, ma per interpretare anche il cigno nero nel balletto di Cajkovskij deve far emergere la parta oscura di sè. Va in scena la discesa negli inferi di una ballerina tecnicamente perfetta, troppo perfetta e quindi senza il graffio nell'anima che occorre per emozionare. Ma brutale e rozzo l'approccio alla psicanalisi, come se il nostro Doppio, la nostra parte nera sia solo qualcosa di brutto da mettere fuori, da sputare. Una narrazione ineccepibile, meno la parte nera di Nina che viene fuori. I tutù s'insozzano di sangue e di umori maschili e femminili, le unghie diventano purulente per esercizi ripetuti ai limiti dell'umano nella speranza di trovare quel movimento perfetto che non è solo fatto di testa ma anche di vagina. Carnalità che Nina fatica a trovare. E che cerca nei lembi di pelle strappati, nei piedi martoriati e gonfi, un po'come accadeva per Mickey Rourke in The Wrestler. Il balletto è in realtà una guerra, una battaglia, una competizione sessuale, primordiale e selvaggia. Aronofsky tira la corda parecchio e ce lo presenta come una lotta alla sopravvivenza. E Nina più che distorcere e piegare i suoi muscoli, mette a dura prova la sua testa che in effetti non reggerà. La colpa del suo crollo psicologico è Thomas, il "cigno nero" direttore-coreografo della compagnia (Vincent Cassel), sultano del corpo di ballo-harem, la prima ballerina viene scelta in base alla donna che più lo seduce in sala prova (e fuori) per poi diventare una sorta di sua concubina, per poi buttarla via e passare a un’altra, sia sulla scena che a letto: la ballerina sull'ormai viale del tramonto è qui Winona Ryder, patetica e straziante. Si avete capito bene, un film fortemente sessista, con l'uomo al vertice e la donna molti scalini più in basso. Femministe ed ex sessantottine non guardatelo. Un film perverso come un voyeur e malato come la madre di Nina, ballerina mancata che riversa su di lei tutta l'ansia della riuscita come riscatto. Nina soffre di manie di perfezionismo da prima della classe a tutti i costi, solo se si è perfetti si merita l'amore degli altri. La sua ossessione-pericolo diventa quindi la sua sostituta: una ragazza sessualmente libera tanto quanto Nina è repressa. Perchè Nina "è un cigno bianco perfetto, ma non riesce ad essere cigno nero", rinfaccia continuamente Thomas umiliandola pubblicamente. E Nina diventerà una psicotica-schizofrenica non più in grado di distinguere tra realtà e immaginazione, è malata di auolesionismo e paranoica all'ennesima potenza: si fatica a capire se quella che spesso vede come sua clone sia proprio lei, il suo doppio o quello che vorrebbe essere cioè la sua nera rivale: "Guarda come si muove, imprecisa ma senza sforzo, lei è il sesso!" Insostenibile il vecchio che si tocca la patta in metrò e ammicca umettandosi le labbra con la lingua a Nina un po'schifata (e come darle torto). Molto forti anche le scene in cui Nina si strappa lembi di pelle e si tagliuzza le dita e si ferisce la schiena. Stupenda invece la Portman che si masturba e la scena lesbo parecchio esplicita con Lily, la sua rivale. "L'unico vero ostacolo al tuo successo sei tu: liberati da te stessa. Perditi, Nina". Ma liberarsi dagli istinti porta poi all'inferno? Perchè non c'è il riscatto tanto agognato da Jung e Freud?

sabato 12 maggio 2012

Urlo di Robert Epstein e Jeffrey Friedman.2010

"La Beat Generation non era un movimento, ma semplicemente un gruppo di scrittori che voleva farsi pubblicare"
Controcultura. Va in onda il processo per oscenità subito nel 1957 da Allen Ginsberg, tra testi originali e il cartoon di Eric Drooker che anima i suoi versi. Non è certo una testimonianza questo tributo all'Urlo di Ginsberg, nè un documentario, forse nemmeno un film, piuttosto lo difinerei il flusso della coscienza dell'autore ricostruito tramite immagini. E'inclassificabile quindi questa pellicola unica nel suo genere, una fuga lirica e prosaica che scagiona Allen dal dito puntato contro dei benpesanti. Con un andamento jazz, vediamo Ginsberg declamare ambienti e persone, in particolar modo artisti, politici, gente con disturbi psichiatrici, drogati. La sua è una chiara invettiva contro lo stato americano, Moloch persofinicato da una sorta di Lucifero con gli occhi di fuoco. Il processo nei confronti dell'editore Ferlinghetti fu vinto: i riferimenti espliciti a droghe e pratiche sessuali e omosessuali diedero fastidio, risultarono scomode forse, ma non furono giudicate perseguibili. Il film è strutturato sulle interviste all'autore che narra suoi episodi di vita: dall'incontro con Jack Kerouak a quello con Peter Orlovsky, compagno di una vita. Molto spazio è dato alla ricostruzione abbastanza meticolosa del processo al quale Ginsberg non presiedette mai e alla lettura integrale di "Howl" alla Six Gallery di San Francisco. Colore e bianco e nero si mescolano. Unico punto di demerito: avrei dovuto ascoltarlo in lingua originale o forse anche nella resa italiana le parti in cui viene recitato Urlo non si sarebbero dovute doppiare. La voce italiana, infatti, vaga a tentoni alla ricerca di un ritmo e una musicabilità che non trova mai. Il tributo a questo favoloso poema ne esce quindi appannato, buona invece la ricostruzione circa la dedica: all’amico Carl Solomon, conosciuto in manicomio. La metrica ispirata a Leaves of Grass di Walt Whitman rischiò addirittura un’accusa di plagio: questa la tesi del professor David Kirk , risultata però alla fine poco convicente. Poco esaustiva la ricostruzione dell'ambientazione beat che ha ispirato l'autore, così come gli episodi personali che Allen snocciola fumando e seduto in poltrona ad un anonimo giornalista: il suo ricovero in manicomio (dopo aver sperimentato la malattia mentale per via materna) e l’osservazione della realtà sotto effetto di peyote. Ma il risultato totale è buono. Anzi beat.

venerdì 20 gennaio 2012

Biutiful di Alejandro González Iñárritu. 2010

"Mi ha detto che dentro era come un mare di fango, che i suoi occhi erano come di gelatina e i suoi capelli bruciavano".

Un violento pugno nello stomaco. Vi accoglie così questo film. Violento, come i loschi traffici in cui è impegnato Uxbal, il protagonista. Un apparente brutto ceffo che cerca di guadagnare di che mangiare per i suoi due bambini di cui ha l'affidamento. Sfrutta la manodopera clandestina cinese e i venditori ambulanti senegalesi. Non ha grossi scopi nella vita, nè glorie e onori di cui andare fiero, ma un grande dono: una donna bipolare che però a modo suo egli ama lo fà diventare papà di due gioielli.
Molto conflittuale il rapporto con la donna, protegge se stesso e i due bambini dagli strani circuiti del suo sistema nervoso. Uxbal sa farlo, lui sa capire le difficoltà della vita e ha anche un dono: ascolta gli ultimi pensieri di chi sta per passare all'altra vita, non sapendo ancora che presto il loro mondo sarà anche il suo.
Solo due i mesi di vita che gli rimangono da vivere. Un cancro alla prostata. Deve sistemare ogni cosa. Deve rendere tutto Biutiful agli occhi dei suoi figli. Perchè la vita distoglie quell'incanto e storpia la bellezza non solo nel suo significato, ama anche nel suo significante. Da sfondo un irriconoscibile Barcellona, non quella da turismo a cui siamo abituati, ma quella dei borghi malfamati, quella dei poveri, quella dell'immondizia, quella che sfrutta i clandestini e che li considera meno di nulla.
Lui è un padre senza padre, è morto prima che lui nascesse, la pellicola sembra essere una discesa negli Inferi da parte del protagonista per ricongiungersi con la figura paterna, imparando, allo stesso tempo, ad essere un padre impeccabile. E alla fine anche voi sentirete il peso di questa ricerca, sia fisicamente che psicologicamente.
Un mondo malato quello che va in scena guardato con gli occhi di un uomo malato, che forse si ammala proprio per questo? Accativante la personalità di quest'uomo:è un padre devoto ma allo stesso tempo uno sfruttatore incosciente, sa ascoltare le anime dei morti e la morte diventa la maschera che s'insidia sul suo volto della vita, deturpandolo, insozzandolo con il suo squallore.
E in uno spazio onirico con cui il film si apre e si chiude, re-incontra suo padre, vi condivide l'aneddoto della civetta, perchè lui non si "aggrappa alla vita come fa la gente sciocca", ma si abbandona a quel viaggio con tutte le umane paure che questo comporta.
Un vagito di dolore in quell'ultimo abbraccio alla figlia e in quella promessa, l'ultima, strappata: "Guardami negli occhi: non dimenticarmi mai".

giovedì 7 aprile 2011

Miral di Julian Schabel. 2010

(Nadia si lascia morire tra le onde del mare)

Miral. Come il fiore che nasce sui cigli delle strade e dal quale germogliano altri fiori:due donne, la sua insegnante Hind, fondatrice di un orfanotrofio, e la madre Nadia. Tre trame al femminile intrecciate alle voci di chiunque abbia esercitato un’influenza su di loro, e a alle voci delle innumerevoli storie simili a quella di Miral, la bellissima palestinese che vive in Israele nel collegio-orfanotrofio fondato da Hind Husseini. Nadia, che si lascia annegare tra le onde del mare, e la zia di Miral che ha compiuto un grave attentato, costringono quello che lei crede essere il suo vero padre a cambiarle identità e ad allontanarla dalla famiglia, ma non si sfugge al destino e nel collegio la giovane seguirà attivamente le vicende che condurranno agli accordi di Camp David e manifesterà, facendone le spese, a favore della causa palestinese. Miral rappresenta la generazione allevata nel pieno dell’occupazione e solo chi ha coltivato nonostante tutto un sogno di pace attraverso l’amore, l’istruzione e la speranza, è riuscito alla fine a vincere. E'la storia di una vittoria al femminile, velata, timida, zoppicante, umiliante: bellissima la scenza della violenza consumata su una donna espressa nel dettaglio di una macchina da presa, che per il pudore di un gesto così vile e oltraggioso indugia, sgrana, sfoca l'immagine, l'azzittisce, ammutolisce, per poi rivelarla solo alla fine, quando tutto è compiuto. Una storia un po'disordinata, difficile e a tratti noiosa da seguire, poco pathos, un generico appello alla pace, ma che ha la pecca di non diventare mai un vero e proprio grido.

giovedì 17 marzo 2011

Gianni e le donne. Gianni Di Gregorio.2010



"E' scabroso le donne studiar, son dell'uomo la disperazion, bionde o brune, mister sempre son, donne, donne eterni dei. Cherubin dal visin tutto ciel, dallo sguardo soave e seren, rosse o brune, oppure biondine che fan,l'uomo sempre burlato sarà."

"La vedova allegra" Franz Lehár

Gianni è un baby pensionato, ha 60 anni ben portati, semialcolizzato, di Trastevere, con moltissimo tempo libero che spende in buona parte portando a spasso il suo cane e quello dell'inquilina del piano di sotto e rispondendo alle chiamate "urgentissime" della sua troppo vispa madre.
La gioventù è ormai solo un ricordo e lui Gianni (Gianni Di Gregorio, protagonista e regista del film) si guarda allo specchio sistemandosi le borse sotto gli occhi, indossa abiti nuovi e con naturale classe nell’incedere cerca di venirne a capo nei suoi rapporti così problematici con le donne in una una lontana reminiscenza dei tempi lontani.
Gianni, delle donne è solo uno schiavo: della moglie che lavora e non ha mai tempo da dedicare a lui, dormono anche in camere separate; della figlia ad un passo dagli esami di maturità, impelagata in una non-storia con un nullafacente che si è piazzato giorno e notte in casa; della ragazza che abita al piano di sotto, giovanissima, sensuale e prorompente, con cui vive un reciproco amore platonico; della madre novantenne, nobildonna decaduta, delusa da un figlio troppo passivo con badanti superpagate e amiche-compagne di poker trattate come regine.
Il suo migliore amico è Alfonso, rozzo e panciuto, in antitesi con la sua eleganza e la sua linea snella, avvocato dalla “lingua biforcuta”, dedito a puttane e viagra, che con Gianni trova attimi di purezza e che per contraccambiare cerca di regalargli attimi di trasgressione (non riuscendoci). La sua vita, insomma, scorre monotona fra commissioni, passeggiate con il cane e faccende domestiche, ma poi si accorge che tutti i suoi coetanei, ma anche quelli ben più vecchi di lui, hanno l’amante. Il film riceve così un piccolo scossone e Gianni cerca di porre rimedio alla sua troppo piatta vita. L'unico incontro riuscito apparentemente quello con la sua compagna di scuola, sessantenne anche lei quindi, ma in formissima per via dei suoi cibi macrobiotici, "ma perchè non ho sposato te" si lascerà sfuggire, ma andrà in bianco anche con lei che si addormenterà sul divano, mentre lui cerca di "liberarsi" dall'ennesima telefonata materna.Ma Gianni non perde mai il sorriso, che a volte amaro, a volte sinceramente sereno, ha sempre stampato sul volto. E alla fine strappa il sorriso di chi lo segue e guarda, perchè non è una commedia che regala grosse risate, ma dei sorrisi sì, si entra in empatia con quest'uomo senza grosse qualità, vittima della frenesia che lo circonda, perchè lui uomo d'altri tempi sa difendersi bene, asseconda, non urla mai e accetta che il mondo beffardo si beffi di lui. Autoironico e malinconico, un mix tra Allen e Moretti.

venerdì 11 marzo 2011

20 sigarette. Aureliano Amadei. 2010


Presentato alla 67esima mostra del cinema di Venezia, questa splendida pellicola ha la forza di trattare di un tema logoro come quello della strage da guerra senza retorica e ipocrisia, ha per protagonista, infatti, un giovane ventottenne anarchico e antimilitarista e aspirante filmmaker: Aureliano, che parte come coaiutante del regista Stefano Rolla per girare un film sulla “missione di pace” italiana in Iraq. In fondo il governo, la Farnesina e i mezzi d’informazione assicuravano che la situazione in Iraq fosse tranquilla...ma basta poco per rendersi conto che in realtà ci si trovi in un far west, dove occorre girare armati per vincere sul tempo cecchini e caw boy.
La durata del film? Il tempo di fumare venti sigarette, anzi, ancora prima di terminarle sarà coinvolto nell’attentato alla caserma dei carabinieri di Nassiriya (da cui si salva per miracolo). Magistrale e la migliore dell'intera pellicola la scena dell'attentato, dove viene usato il piano sequenza con un effetto "reality", con le grida di Aureliano così vere e stridenti da creare un riuscito effetto-immedesimazione.
La seconda parte del film è incentrata sulla sua lenta convalescenza, un dolore fisico, ma soprattutto morale perchè nessuno comprende la crudeltà di quella guerra. Tutto molto sentito, vero, Aureliano Amadei è stato davvero in quel cortile a Nassiriya nel novembre 2003 (dove furono ben 19 gli italiani a perdere la vita) e lo si percepisce appieno, esperienza poi mimeticamente riportata in questo lungometraggio. E claudicante, sordo da un orecchio, vittima di perenni attacchi di panico, ferito psicologicamente, adesso Aureliano è una persona diversa e ha deciso di voler raccontare la sua storia: di come un ragazzo dedito a canne, birra e centri sociali sia diventato un eroe.

venerdì 14 gennaio 2011

Una sconfinata giovinezza Pupi Avati. 2010


C'è sempre l'imbarazzo della "prima volta", e il regista bolognese Pupi Avati, la supera così, con "Una sconfinata giovinezza", sua prima storia d'amore sul grande schermo, pellicola che commuove anche se non convince.
Lillo e Chicca ne sono i protagonisti, collaudata coppia in avanti con gli anni: lui giornalista sportivo di grande fama, lei docente di filologia medievale alla Sapienza. I primi fotogrammi li ritraggono innamorati come se fossero ancora adolescenti, felici, alle prese con una storia d'amore meravigliosa. Solo un dolore nella loro casa troppo grande: nessun pargolo, nessun nipotino, ma nonostante una così grave lacuna, i due riescono a sopperire alla mancanza di un figlio grazie al forte sentimento.
E quando la memoria comincia a vacillare, tra uno sfottò e un altro, "l'età avanza" chi mai potrebbe pensare ad gravissima patologia regressiva come il morbo di Alzahimer? E tutto il film scorrerà su due linee narrative: il difficile presente della malattia e il passato di Lino raccontando, con flashback, la sua regressione all’infanzia.
Chicca con la sua intelligenza e lungimiranza, comincia ad osservare Lillo, si accorge che qualcosa non va, non si arrende, studia un modo per comunicare con lui anche mentre la sua mente divente pian piano infantile, regredendo nei meandri di "una sconfinata giovinezza".
Inno di un amore che non conosce età, tempo, malattia, pronto a combattere contro la natura, contro il destino, contro il male che avanza. Troppa retorica? Si, il messaggio che il film veicola, come anche l'intero film ne abbondano, si sa sempre dove l'autore vuole andare a parare, nessun colpo di scena, sempre tutto fin troppo scontato...ma non è forse la mimesi di un amore maturo tutta questa ovvietà? In molti tratti il richiamo a Benjamin Button è fortissimo, qui è la malattia a far regredire Lillo, Benjamin regredisce, invece, per "uno strano caso". In fondo i ricordi tutto sono tranne che "originali", ci appartengono, sono nostri, li conosciamo, la nostra mente li ha incamerati come la fotocamera un'istantanea, eppure chi potrebbe mai affermare che un ricordo non lo rapisca ed emozioni ogni volta? E qui sono proprio loro, i ricordi di Lillo a parlare, la sua mente scava, fa salti temporali, le immagini si palesano nella schizofrenia della sua mente malata. Chicca avrà tra le braccia il bimbo tanto desiderato e mai arrivato, Lillo si perderà nei confini della sua adolescenza, (ma per finire dove? Troppo misteriosa la fine del film)Lino, infatti, completamente persa la percezione di sé come uomo ritorna un bambino spaurito, rifugiandosi nelle campagne bolognesi, che lo hanno visto adolescente.

Questa la storia di quest'atroce malattia che, come tutte le malattie, non ha un perché, emblematico che il cane di Lillo bambino si chiami proprio "Perchè". Merita una segnalazione la prova di Vincenzo Crocitti, il prete di famiglia, qui nella sua ultima apparizione prima della morte.

mercoledì 17 novembre 2010

The Social Network, David fincher 2010

Se si pensa ai 500 milioni di utenti di Facebook, è facile suppore che un film che ne ripercorra la storia raccontando gli aneddoti e le vicissitudini dei protagonisti, si candidi a essere uno degli eventi cinematografici dell’anno.
In effetti le due cose non vanno di pari passo.
"The Social Network" è la trasposizione cinematrografica della travagliata e creazione di Facebook, il più famoso social network al mondo dalla sua fondazione nel 2004 fino alla causa da 600 milioni di dollari indetta contro il suo creatore Mark Zuckerberg.

Il film è bello, veloce, non annoia nonostante non sia certo un cortometraggio (120 minuti ndr).
La storia, abilmente diretta da David Fincherè presentata a spezzoni, passato e presente che s’intrecciano velocemente.
Senza perdere il filo, si passa dalla stanza di un tipico Nerd di un college americano, ad un lussuoso studio legale dove si svolge la causa legale tra Mark e l'amico e cofondatore Eduardo Saverin, passando per l'altro studio legale dove è in atto l'altra causa milionaria in cui Zuckerberg è coinvolto.

Non mancano le scene in cui il linguaggio diventa un susseguirsi veloce ed incomprensibile di termini tecnici che in sala fanno sghignazzare soddifatti gli smanettoni e sorridere i neofiti. Ben dosate comunque, giusto per far percepire l'atmosfera che il protagonista respirava e respira.

A volte stralunato ma sempre deciso e convinto delle potenzialità della sua creatura il Mark Zuckerberg rappresentato dal bravissimo Jesse Eisenberg è straniato e geniale, gira in pantaloncini e ciabatte anche sotto la neve e appare impassibile difronte al successo.

D'effetto il momento in cui il protagonista ed il suo team festeggiano il milionesimo "amico" di facebook e contemporaneamente Mark perde il suo forse unico amico reale.

Così come anche il molto romanzesco finale in cui un pensieroso Zuckemberg chiedere l'amicizia su face, alla ragazza da cui forse tutto era iniziato.

In conclusione "The Social Network", non ha nulla a che vedere con i precedenti di Fincher quali Seven e "Fight club" o Il curioso caso di Benjamin Button , non è certo un capolavoro da inserire negli annali della cinematografia, però è piacevole,ben fatto, racconta in modo abbastanza romanzato ma sempre con ordine le vicende di Zuckerberg.
Secondo me da vedere

mercoledì 27 ottobre 2010

La pecora nera. Ascanio Celestini.2010


Dal salotto rosso della Dandini, al suo primo lungometraggio:Ascanio Celestini è Nicola e vive nel "condominio dei santi" da ormai trentacinque anni. In realtà è un manicomio elettrico, raccontato attraverso un lunghissimo monologo (la voce off se all'inizio conquista, a metà film diventa un incubo) tra ricordi d’infanzia e i passaggi delle gonne delle suore che gestiscono l’istituto. Scariche elettriche per ripristinare tragicamente l'ordine nelle teste "senza ordine" dei loro sfortunati ospiti, delle pecore nere. Qui la pecora nera è proprio Nicola,l'emarginato, l'ultimo della classe, la coda della società. Tra le uniche uscite "le spedizioni" per fare la spesa al supermercato e come ogni attività da manicomio, anche questa con delle regole da seguire alla lettera: evitare le sottomarche, prendere sempre i prodotti retrostanti, arrivare in cassa e lasciare che la suora paghi. Qui, nel supermecato ritrova Marinella (Maya Sansa) l'amica di giochi adolescenziale, emblema di quell’amore che dura un attimo, che comincia e finisce, l'unico che davvero inebria, stordisce, quasi conduce "alla pazzia". Lei non lo scelse solo perchè non aveva creduto ad una sua bugia: Marinella finse di aver mangiato un ragno, Nicola non credette alla falsa verità e finì quell'idillio d'amore. Ora la bella Marinella vende cialde e macchine del caffè in un angolo del supermercato, grazie agli occhi dolci fatti ad uno che conta, anche lei una tragica vittima del corrotto sistema sociale. Quelle visite al supermercato diventano per la testa di Nicola libertà ed evasione, una proiezione di quel caos strozzato con l'ordine, ma che torna a rivendicare i suoi spazi, a rivendicare il suo status di pazzia. Perchè le regole vanno sempre poi ripristinate: "Come ti faccio ti disfo" Pio Pio Pio Pio.
Toccante la resa dell'infanzia di Nicola, vissuta con la nonna anziana (che indossa le calze grosse della farmacia), anziana nella testa più che anagraficamente e che quindi spesso lo metteva in ridicolo: "quest'uovo è così fresco che puzza ancora del culo della gallina", è solo la ricostruzione della malattia di Nicola, infatti, a dare solidità al film per la sua schiettezza. A tratti davvero spiazzante. Strazianti le sue disfatte, le sue sconfitte: il costume da Tarzan rimpiazzato da quello del coniglio puzzolente, il rifiuto di Marinella, gli scherzi imbecilli dei fratelli, una madre pazza stesa su un lettino senza capelli che non lo coccola "dalle un bacio, è tua madre, sbrigati sennò poi muore".
Notevole la prova Giorgio Tirabassi nella parte del doppio di Nicola, la sua parte malata ed un plauso al piccolo Luigi Fedele, Nicola bambino, nella riproduzione mimetica dei tic linguistici e delle movenze di Celestini.
Una filastrocca di gusto espressionistico, ambientata negli "anni 60, i favolosi anni 60",quelli del Cremino e del Sapore di sale, sapore di mare, al gusto di pasticche marziane.
Chi sono i matti? Sono dei santi- dirà Celestini- perchè rinchiusi fra le quattro mura del manicomio, accolgono le sofferenze del mondo e lasciano i "sani" liberi di correre spensierati sull'erba dei prati.

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