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martedì 28 febbraio 2017

Taxi Teheran di Jafar Panahi. 2015

Jafar Panahii lo conosciamo tutti. Condannato dal regime iraniano a non fare film, ne ha già diretti clandestinamente tre, ed è riuscito a farli arrivare ai festival e mandarli in giro nel mondo. Taxi Teheran è tutto girato in un taxi, per evitare controlli e censure, un taxi di cui il regista si improvvisa gestore, dunque attore-regista. Poi entra in gioco la sua nipotina, ( non so se vera o presunta)a scuola fanno fare cinema e lei ripete le formule del cinema del regime: l’invito a un “realismo” in tutti i sensi bigotto e autoritario, negazione di ogni confronto vero con la realtà. Nel finale - anche questo girato nel taxi- due poliziotti in borghese penetrano violentemente nella macchina momentaneamente abbandonata da Panahi e dalla nipote, alla ricerca di un “girato” da distruggere o di cui servirsi contro il regista. Pura poesia il dialogo con un’amica avvocato dei diritti civili che, con la stessa ostinazione del regista, continua nonostante tutto il suo lavoro, negli estremi limiti di uno stato di polizia, dicendo serenamente che si deve tirare avanti. Come in "Dieci" di Kiarostami, il taxi diventa una sorta di teatro in movimento, luogo chiuso e al tempo stesso aperto, spazio ideale, quindi, per raccontare una società affascinante e contraddittoria dove il cinico disincanto si alterna a superstizioni che sembrano provenire da epoche lontane. Un road movie per parlare in maniera leggera di giustizia, pena capitale, diritti delle donne e dell'indigenza in cui versa una parte della popolazione.
La sua camera che si accende e che lui gira e rigira è il suo cuore pulsante, quello che non si è arreso. Di fronte ai dubbi della nipotina sulle norme di autocensura volute dal regime per chiunque voglia fare cinema, così come agli inquietanti resoconti di realtà carceraria riportati dalla donna di legge, il regista si limita a sorridere. E il suo sorriso ci fa sperare.

giovedì 19 novembre 2015

About Elly di Asghar Farhadi. 2009

"Meglio un finale amaro che un'amarezza senza fine"
Quattro coppie di amici e tre bambini della middle-class iraniana decidono di passare tre giorni insieme in una casa sulla spiaggia del mar Caspio. Sepideh invita la giovane maestra dei propri figli, Elly, convinta che possa piacere al separato Ahmad, un giovane che vive in Germania, può sfruttare solo quei giorni per incontrarlo e conoscerlo. La camera a mano e le inquadrature concitate mi hanno provocato tensione e stizza, il realismo è palpabilissimo in molti punti. Tutto è giocato sul peso della verità e quello delle convenzioni della società iraniana, dei rapporti tra marito e moglie, uomo e donna, i loro equivoci nei rapporti sono tutti generati dalla loro cultura: colpe da spartirsi, detto e non detto, onore e vergogna, il decidere la cosa giusta da fare. Suona subito chiaro che la casa fatiscente, con i vetri rotti, è l’Iran nella sua attuale condizione (“Possiamo sistemarla”, dice, infatti, uno dei giovani). Elly - che vuole lasciare il fidanzato, ma scompare - è la liberazione che fallisce; d’altronde la ragazza manovra un aquilone come simbolo di emancipazione (del singolo, del popolo), così i personaggi in apertura “urlano al vento” dalle auto in corsa.

lunedì 29 luglio 2013

Una separazione di Asghar Farhadi, 2011

Due punti di vista. Un film in cui a decidere le sorti è un giudice. Fin dall'inizio, abituatevi da subito: Naader e Simin vogliono divorziare. Lei vuole garantire un futuro migliore alla loro unica figlia e vuole andare via, ma lui che non ne vuole sapere: preferisce rimanere a curare il padre malato di Alzheimer che vive con loro. Razieh, una nuova donna, portatrice di sventura entra quindi nella casa dell'uomo e della sua vita: assunta come badante.Razieh è incinta di quattro mesi, ma Nader sembra non saperlo.. Mi ha commosso il padre di Naader, mi ricorda mio padre: “Ma che differenza fa per lui se stai o te ne vai? Tanto non ti riconosce neanche più”, gli dice Simin. “Ma io riconosco lui, io lo so che lui è mio padre”. Tutto molto scenico, teatrale, con una verità intricatissima, pirandelliana: dalle mille facce indistricabili. Bellissimi i volti di intesa che spesso si scambiano le figlie delle due coppie, vittime dell'agire troppo spavaldo dei padri, troppo fragile delle madri. Pessimo il doppiaggio, se potete guardatelo in lingua originale. Bellissima la camera a mano di Farhadi, per una regia impeccabile, puntuale. Kiarostami mi aveva un po' messo in guardia dai film iraniani così lenti,in questo film di iraniano c'è ben poco, la storia è universale: borghesi contro piani bassi. Comprenderete le ragioni di tutti e li assolverete, nè vincitori, nè vinti, ognuno incassa la sua piccola sconfitta e la porta a casa. E sarà infine la giovane Termeh che cresce e diventa donna in fretta a dover emettere una sentenza che rimane muta, perchè giungeranno prima i titoli di coda.

domenica 23 maggio 2010

Copia conforme. Abbas Kiarostami. 2009

Girato interamente in Italia e precisamente in Toscana: tra Arezzo e San Gimignano, il film ha per protagonista James, uno scrittore inglese che va in Italia a presentare il suo nuovo ultimo libro: Copia conforme, sulla relazione tra l’originale e l’arte. Qui James incontra una donna di origini francesi, gallerista. Per gioco la donna comincia a far finta di essere sua moglie ma dopo un po'si faticherà a distinguere il vero da falso. Sotto il cocente sole toscano gli ulivi non riparano e si brucia di noia: per un po' stai al gioco dei protagonisti e ti chiedi se il loro sia una trovarsi o un ri-trovarsi, ma il gioco è bello se dura poco e qui si tira troppo la corda.
Ora capisco come mai la faccina delicata di Juliette Binoche (la cooprotagonista) è stata “riammessa” SOLO per mancanza di “meglio” tra i poster di Cannes 63. Un'ora e quarantasei minuti di dialoghi non-sense ininterrotti, lacrimucce, domande sciocche e risposte futili, scazza!
E'vero che le "copie" concettualmente hanno poco di originale, ma qui il ritmo è pedante e lo si legge anche nell'andamento di James, che si trascina annoiato tra i viali di Lucignano, spettinato, con la barba incolta e con i vestiti spiegazzati (un incrocio tra Mourinho e Mr. Bean).
Avrei rivoluto indietro i soldi del biglietto e ora la chiudo qui perchè scatta lo sbadiglio anche a scrivere.

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