“Mi accorgevo di avere la pelle d’oca. Senza una ragione, dato che non avevo freddo. Era forse passato un fantasma su di noi? No, era stata la poesia. Una scintilla si era staccata dal poeta e mi aveva dato una scossa gelida. Avevo voglia di piangere; mi sentivo molto strana.Avevo scoperto un nuovo modo di essere felice.” (Sylvia Plath)
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giovedì 17 ottobre 2019
Grâce à dieu di François Ozon. 2019
Spotlight alla francese.
Il clichè anticattolico dell'anziano prete che si trascina a fatica ormai stanco, ma con un passato di abusi sui chirichetti in sagrestia, o al camp estivo con gli scouts, con le voci bianche del coro è in questi casi sempre in agguato.
François Ozon sceglie coraggiosamente di inoltrarsi in questo scivolosissimo e impervio terreno, firmando, però, la migliore opera possibile, oggi, sulla pedofilia, mai scritta per il cinema.
Tratto dai fatti realmente accaduti nella diocesi di Lione, con padre Bernard Peyrat, abusatore per decenni di ragazzini a lui affidati. E contro Barbarin, il suo superiore, accusato di avere coperto i misfatti del sacredote pedofilo senza rimuoverlo.
Due ore e venti di ricostruzione minuziosa dei fatti, delle storie intrecciate dei tre protagonisti principali: una staffetta che alla fine confluisce in un affresco plurale. Saranno tanti purtroppo i casi registrati!
Tutto comincia con l'indignazione di Alexandre, quarantenne, banchiere, cattolico credente e praticante, sposato con cinque figli, che apprende che père Peyrat, il prete che lo ha abusato, non è ancora stato estromesso dalla Chiesa, anzi non è mai stato sanzionato né condannato e continua a lavorare con i più piccoli come catechista.
Da lui si origina un effetto-valanga che culmina nella fondazione di un gruppo, "La parola liberata" con lo scopo di fare pressione sulla Chiesa e le istituzioni.
Ozon constata e descrive: entra nel narcisismo di François, nell’incomunicabilità tra Emmanuel e il padre e nelle relazioni tossiche che ne derivano.
Affascinante la ricostruzione delle personalità e dei loro doppi- fiore all'occhiello nel cinema di Ozon.
Il realismo è davvero tagliente e soffocante, soprattutto nella descrizione della Lione altoborghese e di quel cattolicesimo francese colto, riservato, trattenuto e intransigente. Fatto di grandi corridoio da percorrere con passo felpato, in silenzio, in cui nessuno urla quel segreto noto a tutti ma sottaciuto.
Davvero - come sempre- un grande cinema.
domenica 8 settembre 2019
Martin Eden di Pietro Marcello. 2019
Sconquasso narrativo, fotografia in filigrana e mistificazioni storiche sul il primissimo novecento, il post guerra, gli anni del boom e gli anni ottanta. Basato su un libro noto ma spesso tradito: a cominciare dal raggio d’azione che si sposta dalla California ai vicoli di Napoli, classico nell’impianto ma modernissimo nella realizzazione.
Inquadrature veramente efficaci e di rara bellezza. Si apre “ideologicamente” in maniera molto forte: con un filmato di repertorio dell’anarchico Errico Malatesta durante la manifestazione a Savona del 1° maggio 1920 per mettere in risalto le contraddizioni cruciali che hanno accompagnato il secolo scorso: dal ruolo della cultura di massa al rapporto tra individuo e società, tra socialismo e individualismo, fino alla lotta di classe.
Martin non è istruito ma vuole arrivare a sapere e conoscere, si innamora di Elena che appartiene ad mondo diverso dal suo: ‘bello e lineare’, di una borghesia pulita. Il successo e il riscatto arriveranno alla fine, ma il tardivo apprezzamento di chi prima lo disprezzava, senza che lui sia cambiato di una virgola, lo farà impazzire di rabbia.
Martin ha le spalle larghe e le unghie nere. Appare stralunato, assente, scostante e intenso, incarnando alla perfezione la figura dell'anti-eroe, con la passione per la scrittura quale mezzo di riscatto personale e veicolo necessario per comunicare lo stato d’animo di angoscia esistenziale e denuncia sociale.
Martin Eden, il marinaio che non sa pronunciare il nome di Baudelaire, ma che finirà per tenere lezioni nelle più importanti università incarna il prototipo dell’uomo umile che si eleva dal suo rango con dedizione e resistenza, purconservando un malessere vitale che spesso sfocerà nella delusione e nell' auto-distruzione.
E se anche il film non dovesse convincervi gli occhi di Luca Marinelli valgono da soli il prezzo del biglietto!
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domenica 3 febbraio 2019
The lobster di Yorgos Lanthimos. 2015
Non un è mondo fantastico, piuttosto un universo kafkiano, dove non è la realtà ad essere assurda, ma è l’assurdo che diviene reale. Nella società di The lobster la solitudine non è ammessa, per una strana legge, infatti, chi è single viene arrestato: le persone che non amano vengono condotte in un albergo, dove hanno qualche settimana per poter trovare l'anima gemella e tornare nel mondo, se questo non avviene verranno trasformati in un animale a loro scelta.
Colin Farrel sceglie l'aragosta (the lobster) perchè è fertile e sopravvive al secolo di vita."Bene - gli viene risposto - di norma tutti pensano ai cani, ed è per questo che ce ne sono così tanti. Pochi pensano agli animali esotici, ed è per questo che rischiano l'estinzione".
Una voce over racconta il banale, ciò che già va in scena e non ha bisogno di essere riproposto, ma copre l'essenziale, anticipa gli eventi, li segue, vi si sovrappone.
Non vi sono ammesse vie di mezzo: sei eterosessuale o omosessuale, solo o in coppia, perchè - sembra suggerire il regista- in una società commerciale e normativa come la nostra definire bene le categorie è assolutamente necessario, schedare gli altri, renderli prodotti. Non esiste il vero amore, non esiste il vero affetto, i sentimenti sono ricondotti all’avere cose in comune ed esserne razionalmente consapevoli. Tutti i personaggi di Lanthimos sono noncuranti, privi di personalità e slanci di vita, espropriati del più minimo barlume di intelligenza, semplici automi, individualisti, completamente anaffettivi: c’è chi prova a sedurre puntando esclusivamente sull’abilità sessuale, chi rinuncia ad accoppiarsi perché non ha mai trovato un compagno con i capelli belli come i suoi, c’è chi simula lo stesso disturbo fisico per fare colpo sulla futura partner.
David allora fugge e si rifugia fra i “solitari”, ribelli al sistema che rifiutano l’accoppiamento, si impongono anzi di non avere legami. Vivono nel bosco circostante l’albergo come guerriglieri. Ma se diverso è il credo, altrettanto rigide e castranti sono le regole. E il protagonista sceglie, contro ogni regola, in cambio di un prezzo altissimo, l’amore, unico mezzo per giungere alla libertà.
La conclusione - in pieno stile Lanthimos- sarà nichilista: scegliere il cuore, anteporlo alla ragione, porterà inevitabilmente ad un mondo senza luce.
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Olanda | 2015
domenica 6 gennaio 2019
Cold war di Paweł Pawlikowski. 2018
“Andiamo dall’altra parte, la vista è migliore da lì”.
Con la dedica finale di Pawlikowski, “ai miei genitori” capiamo che i due protagonisti non condividono solo il nome di battesimo (Wiktor, pianista e arrangiatore colto e malinconico e Zula, la sua allieva) dei genitori del regista, ma che ad essere narrata è proprio loro storia, un tentativo di riportarli in vita per farli tornare a suonare, cantare e danzare quell’amore così travolgente e impossibile, tra una Berlino divisa in due, la Jugoslavia e la Parigi bohémien.
In una Polonia devastata dalla guerra c’è chi pensa che la ricostruzione passi pure dall’Arte, cioè il“Mazowsze”, corpo di ballo e canti popolari nato per volontà del governo filosovietico, esportato in tutto il blocco orientale nell’arco degli anni ’50, su cui il governo mette gli occhi, trasformandolo in uno strumento di propaganda comunista.
Il musicista e direttore della compagnia s'innamora della misteriosa allieva Zula. Arrivati a Berlino Est per un’esibizione, Wiktor organizza la fuga dall’altra parte del blocco per vivere finalmente in libertà quella storia d’amore. Ma Zula, contro ogni previsione, non si presenta all’appuntamento concordato. Non ha rimostranze contro il comunismo e anzi teme la libertà del blocco occidentale, che percepisce come un ostacolo che evidenzia la distanza culturale con il suo amato. La vita da esuli, pur ricca di successi artistici e musicali, li consuma, li priva della loro identità e li rende deboli. Lei annega nell'alcol, lui in una debolezza cronica e priva di carattere. Zula, infatti, dirà ad un certo punto al suo uomo: «non sei più lo stesso che eri in Polonia».
C'è per tutto il film un apparente freddezza emotiva, la passione di Zula e Viktor racchiude, infatti, e diventa l'emblema dello spirito polacco, quello di un popolo oppresso da nazisti e comunisti.
Ma l’amore è una ragazza che ti volta le spalle e se ne va per sempre: poi esita, si ferma, torna indietro correndo e ti bacia.
Grazie per quel brivido. E per tutta la sensualità del montaggio, per l'importanza data alla musica, dove ciò che viene cantato è importante più di ciò che viene detto.
Magnetica Joanna Kulig
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sabato 29 dicembre 2018
Capri-Revolution di Mario Martone. 2018
Una comune di artisti e giovani -capitanata da un guru bello, biondo e americano che sembra Jesus Christ Superstar- vive tra le montagne di Capri all’alba della prima guerra mondiale.
Una pastorella del posto entra in contatto con il sopracitato guru vegetariano/utopista/ecologista/nudista/spiritualista orientale e finisce per scoprire se stessa in quanto donna non più soggetta ai padroni maschi di casa (i due fratelli maggiori)
L’aspetto più interessante di Capri-Revolution è il legame con Noi credevamo e Il giovane favoloso, cioè la necessità di riflettere sul Tempo e la Storia. Nel raccontare gli eventi che anticiparono e seguirono il Risorgimento, Noi credevamo tracciava una riflessione sul tradimento della lotta partigiana nella società post-costituente; e Il giovane favoloso oltre a trasformare in immagini la biografia di Giacomo Leopardi, ce lo infiocchetta come se si trattasse di un esponente della cultura punk di fine anni Settanta. Qui, invece, Martone si concentra sul fallimento dell'utopia sessantottina: il pittore Karl Wilhelm Diefenbach creò sul serio una comune a Capri nei primi del Novecento, anticipando gli hippie.
Troppa carne al fuoco: Lucia e la sua rivalsa di contadinella analfabeta , il conflitto culturale tra la comune e la cittadinanza, i rivoluzionari russi esuli che stanno preparando il 1917, l'arrivo dell'elettricità sull'isola, il papà di Lucia che si ammala in fabbrica, il pacifismo di Seybu, l’interventismo socialista del medico, la Grande Guerra.
Temi rispettabilissimi e degni di nota, ma il regista insiste ossessivamente sulle pratiche naturiste dei membri della comune, che vagano nudi per gli scogli, improvvisando coreografiche. Troppe, estenuanti.
E l'erotismo? La carne? La materia?
Questo film non ha pancia, non trema, è didascalico, spiega e suggerisce risposte, esce fuori solo l’innamoramento di Martone per ciò che fa, per come posiziona la macchina da presa, per come crede di esplorare un grande messaggio, ma che poi non arriva mai.
Unico dialogo ben scritto lo scambio di vedute tra Seybu e il dottore sul concetto di rivoluzione, in cui vengono messi alla berlina entrambi gli estremismi: il dogmatismo interventista da una parte e quello isolazionista dall’altro.
Il film ha tante piccole rivoluzioni inesplose, l'unica miccia che prende fuoco è la storia personale della pastorella Lucia (Marianna Fontana), che imparara a leggere e a parlare in inglese. Incredibile il suo volto estremamente cinematografico e di un bellezza disarmante. Non si riesce a toglierle gli occhi di dosso.
D'effetto la chiosa: un'anfora cade, la guerra è cominciata, simbolo di una scossa tellurica che annuncia una nuova epoca, è l'addio a un equilibrio. E bellissime le parole della mamma di Lucia: "ho sempre saputo com'eri Lucia, ti ho sempre sentita scappare di notte. E anche io avrei voluto essere là, con te".
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martedì 4 settembre 2018
Paradies: Liebe di Ulrich Seidl. 2012
Un po' cinico e volgare, a volte crudele. Perchè è la verità ad esserlo. Ma vincente, come la scelta di girare un film di finzione come fosse un documentario. Gli autoscontri e un gruppo di disabili, la provincialità, l'emarginazione, la bruttezza esteriore, quotidiana, distruttiva
Qui non c'è spazio per la magia cinematografica, la pellicola lavora di sottrazione, il quadro è fisso: gli effetti dell'economia e la cultura occidentale.
Va, infatti, in scena il turismo sessuale praticato da attempate signore austriache e tedesche. Ma chi è la vittima, chi il carnefice?
Il viaggio di Teresa in Kenya è un safari, è una caccia a uomini che sono visti come animali. Hakuna matata, non ci sono problemi, le signore hanno i soldi e il materiale umano abbonda, arrendevole, corrotto per bisogno, a sua volta cinico, ma senza scelta.
Degrado, umiliazioni, disgusto e pietá. Le pieghe massicce del corpo di Teresa e le ossa sporgenti del giovane offerto dalle sue amiche come regalo di compleanno.
Un cinema antiborghese volto a smascherare quel finto benessere insito in molti europei.Teresa è sola: la figlia dimentica di chiamarla il giorno del suo compleanno, cerca dolcezza mentre fa sesso, moralisti e sentimentali i suoi lunghissimi preliminari, umiliante quando al festino il giovane del posto non raggiunge l'erezione. Subito dopo, il rifiuto del barista in camera da letto di praticargli un cunnilingus, la sconfitta finale, la perdita della dignità, la maestosità nel lasciarsi vincere dal disgusto verso se stessi. Funziona. Perchè per quanto un po'confusi, si vuole solo andare avanti nella visione per capire dove siamo finiti, senza accorgercene.
giovedì 3 maggio 2018
Asphalte di Samuel Benchetrit. 2015
Umorismo di grande spessore culturale, originalità e vita quotidiana di una periferia francese dormiente di un quartiere popolare.
Un condominio pieno di graffit in cui Sternkowtiz non capisce perché debba pagare per sostituire l’ascensore, quando abita solo al primo piano. Dopo aver pedalato senza freno per 100 km davanti al televisore, Sternkowtiz si troverà obbligato a scendere a patti con l’ascensore, studiando un piano che gli permetterà di usufruirne a notte fonda, solo per racimolare cibo presso la macchinetta automatica di un ospedale. Si innamorerà dell'infermiera che fa il turno di notte.
E sono proprio le bizze ricorrenti dell' ascensore mal funzionante a farci entrare in contatto con gli ospiti del condominio.
L'adolescente Charly (magnetico figlio del regista, la cui vita privata ha dei rimandi con quella del suo personaggio: sua madre è Marie Trintignant, morta nel 2003 dopo le percosse del fidanzato Bertrand Cantat, cantante dei Noir Désir) e l'immigrata algerina Hammida con il figlio in carcere, che ospita un astronauta americano della Nasa- geniale la battuta "Nutre sentimenti anti-americani?", della traduttrice della Nasa, con il centralino che lascia in attesa con la musica del walzer di Strauss -sono i protagonisti delle altre due storie; a fare da suggeritore e collante di questi tre incontri-scontri è la tv, sempre accesa e sintonizzata su canali dove trasmettono I Ponti di Madison County o Beatiful.
Tanta energia libera e raffinata che diverte ed emoziona. Questo film è un piccolo capolavoro.
venerdì 20 aprile 2018
L'ordine delle cose di Andrea Segre. 2017
Un funzionario ministeriale e la questione libica degli sbarchi di migranti, provenienti dalle coste del territorio nord africano, con tutte le attività politico-diplomatiche con le quali il nostro governo sta cercando di convincere le autorità della Libia a collaborare per arrestare il flusso di persone che ogni giorno si imbarca in direzione del nostro paese. Con l'aggiunta della complicità di chi lucra sul traffico illegale di vite umane nel Mediterraneo.
Più denaro europeo ai libici per migliorare l’accoglienza e ampliare la ricettività, frenare il loro stesso affarismo nel traffico di disperati, bloccare gli imbarchi già nelle loro acque territoriali riportando indietro i migranti. In uno status di accoglienza da leggersi però come detenzione.
Corrado bada all'"ordine delle cose" però: piega perfettamente le camicie sul letto,colleziona ampolle con la sabbia delle spiagge visitate nel mondo. Perchè lui sa come difendersi e quando attaccare, ha praticato la scherma in dimensione olimpionica.
Poi però incrocia Swada, una giovane somala cui là dentro le guardie hanno ammazzato il fratello, che lo scongiura di aiutarla a raggiungere il marito in Finlandia. Tentenna, ma poi non cambia le cose.
Quello che rimane, nella fissità di un breve piano sequenza è l’indifferenza, il cinismo e i nostri occhi volontariamente chiusi.
Poca poesia, molta realtà
venerdì 27 ottobre 2017
Ma mere di Christophe Honoré. 2004
Film intellettuale, snob e provocatorio. Canarie. megavillotto con piscina.
Ma mère è tratto da un’opera incompiuta di Georges Bataille (dallo stesso titolo usato per il film) pubblicata nel 1966 dopo la morte dell’autore avvenuta nel 1962.
Piere ha diciassette anni e vive con sua nonna lontano da una madre dedita all’alcol e alla costante ricerca di un piacere (il suo) che si sovrappone all’autodistruzione. In occasione delle vacanze estive, il padre lo accompagna da lei alle Canarie ma al ritorno verso casa rimane vittima di un incidente mortale. Piere a questo punto fa diventare la madre il suo unico perno ossessivo, ma lei vorrebbe - prima che si amino completamente- che il ragazzo la conoscesse in tutta la sua dissolutezza, per sentirsi così davvero da lui posseduta. Decisa a introdurlo nel suo mondo, lo presenta a Rea, sua giovane amante che ne condivide lo sfrenato stile di vita. Quando si rende conto del possibile rischio che entrambi stanno correndo, scappa e lo affida ad una giovane donna.
Il danno però è ormai fatto e madre e figlio scivolano inesorabilmente nell’incesto in un crescente stato di delirio che lui pare interpretare come un possibile stato di trascendenza mistica.
Orge transgenerazionali, sadismo,voyeurismo e incesto, attraverso un montaggio che si sofferma spesso su espressioni del viso, frammenti epidermici, mugugni e urla, facendo ricorso anche alla camera a mano e a un uso della luce sottoesposta e sovraesposta a tratti, mentre lascia aleggiare sui personaggi un senso di morte.
Un film assolutamente da evitare. Dove il tentativo spinto di essere "oggetto maledetto" lo trasforma inevitabilmente in kitscheria ridicola da autogrill.
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mercoledì 25 ottobre 2017
Only God Forgives di Nicolas Winding Refn. 2013
Tema centrale: il conflitto intrapsichico.
Membro di una potente famiglia criminale, Julian gestisce un club di pugilato in Thailandia, come copertura per il traffico di droga.
Il fratello maggiore Billy uccide brutalmente una prostituta e le autorità si rivolgono ad un poliziotto in pensione, Chang,il punitore. La punizione per Billy è la morte. Intanto – per recuperare il corpo del figlio - arriva a Bangkok Crystal, madre di Julian e Billy e capo di una potente organizzazione criminale. La donna ha un'importanza centrale: Julian ne è così morbosamente legato da aver ucciso, in passato, suo padre.
Chang entra in scena assumendo su di sé i connotati paterni: la sua arma punitiva è la katana, spada che sfodera magicamente dalla schiena e con la quale, oltre ad amputare arti, squartare toraci e trafiggere gole, perseguita fantomaticamente Julian abitando i suoi luoghi allucinatori ancor prima che i due s’incontrino effettivamente.
Julian sventra il corpo morto della madre, la penetra manualmente. Del resto le mani di Julian, caricatesi eroticamente in concomitanza con l’omicidio della giovane prostituta,sono le sue appendici libidinali, ma al tempo stesso oggettivano lo sbarramento alla titolarità fallica: il godimento di una sessualità piena è letteralmente ostruito, schermato dalla mancanza della castrazione simbolica, Julian avvicina la mano al sesso di Mai attraversando una tenda di perline. E alla fine avverrà la castrazione, quando Chan gli amputerà le mani con uno stacco di nero. Cioè l’amputazione avviene nell’inconscio di Julian, lacerando la perversione primaria con l’introduzione della dimensione dell’impossibile/irrappresentabile: lui non può godere davvero perchè non può possedere la madre e ciò genera traumaticamente la possibilità stessa del desiderio.
Si, questa recensione è lunga e noiosa. Il film però necessità di questa lettura o verrà frettolosamente bollato come una "schifezza"
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domenica 10 settembre 2017
Frantz François Ozon. 2016
Sia caldo, sia freddo. Sia poetico, sia analitico. Sia molto classico, sia sperimentale.
Adrien mente, espressione di un desiderio delicatamente omosessuale verso Franz, il protagonista, com lievi suggestioni omoerotiche. Le cicatrici di guerra nel basso ventre di Adrien sdraiato a petto nudo dopo un bagno nel lago: vita e morte quasi si equivalgono.
Adrien (uno stupendo Pierre Niney) ha tanti segreti, tra questi le sue pulsioni sessuali, infatti, preferisce tornare all’illusione ipocrita altoborghese, lasciando Anna sola ad affrontare fino in fondo la cruda realtà. Anna è capace di perdonare l’imperdonabile e di limitare l’illusione a chi non potrebbe sopravviverle (cioè gli anziani genitori di Franz): “Bisogna vivere anche per gli altri”, dice.
Ipnotiche le sequenze nel cimitero, si respira l’oltretomba, di Poe o della poesia dei Rimbaud, dei Baudelaire o dei Verlaine. L’oltretomba di Ozon ha il suo momento chiave in quella sequenza al cimitero di notte dove si recita Chanson d’automne, celebre poesia di Paul Verlaine usata anche da Radio Londra come messaggio codificato per lo sbarco in Normandia: splendido momento di cinema dove si respira in tutta la sua forza il freddo della morte di un’intera generazione, un freddo che vale ieri come oggi. Lei perdona, lui ringrazia, abbandonandola nel vuoto, perfetta rappresentazione della spietatezza del vigliacco.
Come al solito Ozon non porta premi a casa, fatta eccezione per il Mastroianni per il miglior attore giovane assegnato alla sua protagonista Paula Beer
lunedì 9 gennaio 2017
Dio esiste e vive a Bruxelles (Le tout nouveau testament, Jaco Van Dormael, 2015)
Montato durante i brutti giorni degli attentati alla sede di Charlie Hebdo,
Dio è un annoiato e dimesso signore di mezza età ( l’attore belga Benoit Poelvoorde) che vive a Bruxelles con moglie e figlia e che ha come effettivo divertimento quello di tirare le fila di tutte le nostre esistenze da un computer situato in una stanza super-blindata.
Sua moglie non è la Madonna e sua figlia è una ragazzina ribelle che non ne vuol proprio sapere delle passioni un po’ crudeli del padre e si diverte anzi a dialogare e a confidarsi un po’ con la ‘figurina parlante’ del fratello J. C. (Jesus Christ), che l’ha preceduta nell’‘indipendenza’ da un padre così ‘ingombrante’.
La sua indipendenza comincia, invece,da un oblò della lavatrice e dopo aver superato un lungo e angusto corridoio, la ragazzina cerca sei nuovi ‘apostoli’ per scrivere il suo ‘Nuovo Nuovo Testamento’, facendo in modo che gli apostoli diventino così 18, per la gioia della madre, che avrà infatti un ruolo-chiave alla fine del film.
Questo burbero Dio passa il suo tempo a rendere “leggi” (un po’ come quelle di Murphy) spiacevoli situazioni di vita quotidiana come “una fetta biscottata con marmellata che cadrà sul pavimento lo farà sempre sul lato sbagliato” o “la fila accanto alla tua andrà sempre più veloce”. Ha creato Bruxelles solo perché si annoiava, ma è lì che dovrà “scendere” se vorrà recuperare la figlia Ea colpevole di avergli mandato in tilt il pc e inviato a tutti i cittadini un sms con la data della loro morte.Ed allora ecco che non si può più aspettare per lasciare la propria moglie che non si ama più o per vestirsi da ragazza anche se si è maschietti o, addirittura, per diventare vittima di un colpo di fulmine con un gorilla conosciuto al circo (Catherine Deneuve in uno dei suoi ruoli più dissacranti di sempre).
Bruxelles è grigia, alla Jacques Brel, città dove i musulmani sono la comunità più numerosa, dove esistono gruppi di fanatici che perseguitano chiunque (altri musulmani inclusi) non rispetti alla lettera la legge coranica.
Un film imperfetto, ricco di toni trasognati che suggerisce: Il paradiso è qui e ora, non dopo la morte. Non vivremo a lungo. Godetevela e fate ciò che vi rende felici
giovedì 22 dicembre 2016
INLAND EMPIRE - L'impero della mente di David Lynch. 2006
“Supponete di trovarvi in ufficio. Avete duellato o scritto tutto il giorno e siete troppo stanco per continuare a duellare o scrivere. Ve ne rimanete seduto, guardando nel vuoto, intontito, come capita a tutti qualche volta. Una graziosa stenografa che già conoscete entra nella stanza… voi la guardate…apatico. Lei non vi vede, benché le siate molto vicino. Si sfila i guanti, apre la borsetta e vi rovescia il contenuto su un tavolino…'
Stahr si alzò, gettando sulla scrivania il mazzo delle chiavi.
'Ha due monetine d'argento, un nichelino… e una scatoletta di svedesi. Lascia il nichelino sul tavolo, rimette le monetine nella borsetta, prende i guanti neri, si avvicina alla stufa, l'apre e vi mette i guanti. Nella scatoletta c'è un solo fiammifero e lei fa per accenderlo inginocchiata accanto alla stufa. Voi notate che la finestra aperta lascia passare una forte corrente d'aria… ma proprio in quel momento suona il telefono. La ragazza prende il ricevitore, dice pronto… ascolta… poi in tono reciso dice - non ho mai posseduto un paio di guanti neri in vita mia - Riattacca, si inginocchia di nuovo accanto alla stufa, e proprio mentre accende il fiammifero voi vi voltate di colpo, e vedete che nell'ufficio c'è un altro uomo…'
Stahr tacque. Prese le chiavi e se le mise in tasca.
'Avanti' disse Boxley, sorridendo 'cosa succede adesso?'
'Non lo so' rispose Stahr 'stavo soltanto facendo del cinema.'”
Francis Scott Fitzgerald, Gli ultimi fuochi, Milano, Mondadori, 1974
“Il mio film è chiarissimo”
David Lynch, 2006
A Inland Empire, un quartiere residenziale alle porte di Los Angeles, una donna è nei guai. C'è un film maledetto, un marito geloso e un amore pericoloso. C'è un mistero che si dipana tra sogno e realtà.
Laura Dern si guadagna la parte da protagonista di un film-remake maledetto e mai realizzato, un'agghiacciante famigliola di conigli ad altezza d'uomo, un quadro di Magritte, con squallida gentaglia polacca, un cacciavite trapiantato nello stomaco. Una discesa infernale nelle strade di Hollywood, con balletti e baci alla camera.
Ma quanta poesia nei discorsi tra puttane, sulla griglia del barbecue, nelle lacrime amare consumate davanti alla tv e nelle sfrenate passioni amorose, nei banali e terribili dialoghi tra una barbona nera e una tossicodipendente asiatica.
E poi il digitale, arma tanto cara ai filmaker indipendenti, scrutatrice di realtà quotidiane in continuo mutamento.
Il pianto incessante della ragazza sta tutto nel dramma del tradimento del marito, del senso di colpa per la perdita di un figlio, concepito fuori dal matrimonio.
Il tradimento produce perdita di consapevolezza, confusione, avvilimento: una vera e propria involuzione, che passa dalla realtà al sogno, dal film originale al remake.
Costruisce quindi un alter ego: l’attrice Nikki Grace, plasmabile e mutevole, come solo le grandi attrici sanno essere, che comincerà un viaggio nelle pieghe del senso di colpa, rivivendo l’adulterio, la morte e l’abiezione della prostituzione, sino a ricongiungersi alla protagonista in un bacio impossibile, attraverso lo schermo.
Ah, e se vi chiedete cosa diavolo siano quei conigli antropomorfi che ogni tanto compaiono, la risposta la sapete già, in fondo: quei conigli siamo noi.
mercoledì 21 dicembre 2016
Mulholland Drive di David Lynch. 2001
"Mulholland Drive" è il nome della strada che percorre le colline di Hollywood, nella quale si svolgono due scene cruciali del film
Sensuale, enigmatico, delirante, visionario, oscuro, ambiguo e onirico.
Le prime inquadrature del film mostrano coppie di ballerini danzare il Jitterbug. E'un sogno? Un incidente e poi un uomo, in un bar, racconta spaventato i suoi incubi; un regista di nome Adam Kesher è costretto a scegliere una sconosciuta per un suo film. Tutto apparentemente slegato.In una delle scene più suggestive, Mulholland Drive si rileva anche un esempio di metacinema. Le due protagoniste assistono ad uno spettacolo dove tutto è finzione, illusione, le voci e i suoni sono registrati su un nastro e persino la lacrima sul viso di una cantante è disegnata. Vere sono solamente le reazioni e le emozioni di Rita e Betty.Poi viene aperta una scatola blu e Betty diviene Diane e Rita diviene Camilla.
mercoledì 28 settembre 2016
17 ragazze di Muriel Coulin, Delphine Coulin. 2011
Ispirato a una storia realmente accaduta negli Stati Uniti e riambientandolo in Bretagna, terra d’origine delle due registe, regione scelta per le similitudini geografiche e socio-economiche con il luogo originale, 17 filles racconta la storia di alcune liceali che decidono di restare incinte contemporaneamente, un movimento femminista adolescenziale che rivendica il proprio diritto di esistere, e di scegliere.
la giovane Camille resta incinta per caso, o meglio per colpa di un preservativo che si rompe. cerca sostegno nelle sue amiche, a tal punto da convincerle che la sua è una scelta di libertà che migliorerà e riempirà la sua vita. In questo preciso istante entra in gioco una seconda solitudine, quella di un’altra ragazza che fingerà di essere anch’essa in stato interessante per ottenere l’amicizia delle cinque protagoniste – di cui Camille è il capobranco indiscusso.
Tutto carino. Peccato per il finale; non tanto per il modo in cui si conclude la vicenda, in grado di riportare tutti alla realtà delle cose, quanto piuttosto per la fastidiosa voce fuori campo che prova a tirare le somme di film in cui non è necessario farlo.
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venerdì 23 settembre 2016
Amour di M. Haneke, 2012
"[...] per Frances Haslam, che chiese perdono ai suoi figli
perché moriva così lentamente,
per i minuti che precedono il sonno,
per il sonno e la morte,
quei due tesori occulti,
per gli intimi doni che non elenco,
per la musica, misteriosa forma del tempo."
(J. L. Borges, "Altro poema dei doni")
Anne e Georges, ex insegnanti di musica, vivono la loro vecchiaia insieme a un pianoforte. Un ictus colpisce Anne. Lui la accompagna alla fine. Una storia di sofferenza, ma ciò che davvero mi ha colpita è la figlia dei due coniugi (in cui ovviamente per motivi personali mi sono rivista), che condivide coi genitori l’inflessibilità nel concedersi una reale apertura al dolore e all’espressività emotiva, in un quadro globale che richiama l’idea di un’austera e colta borghesia parigina.
Sarò impopolare, ma per me Haneke bara, perché in ogni immagine vedo altro rispetto a quello che lui vorrebbe che io ci vedessi. Lui dice amore e io vedo odio, dice affetto e vedo rabbia, dice vicinanza e vedo infinita distanza. Ogni tanto mi chiedo se non è questo che vuole dire davvero: che ci odiamo, sempre. Titolo sbagliato: Haine.
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lunedì 29 agosto 2016
La Famiglia Belier di Eric Lartigau. 2015
"Cosa fai? Chiudi quegli occhi e fa volare la tua anima...".
Belier che in francese significa montone è il cognome di una famiglia formata da madre, padre e due figli adolescenti,tutti sordomuti tranne la primogenita sedicenne Paula. Sono allevatori di bestiame e produttori di formaggi, grazie alla ‘parola' di Paula, l'unica in grado di dialogare con loro (tramite il linguaggio dei segni) e anche con il mondo esterno (attraverso il linguaggio convenzionale).Nella cucina soleggiata e multi-accessoriata la famiglia Bélier inizia una comune giornata di scuola e lavoro. Posate e piatti tintinnano sonoramente: confortanti segni della vita amena della campagna francese. Paula salta in bici, cuffie e va.
La sua vita prende una piega diversa nel momento in cui si iscrive al corso di coro della scuola, dove scopre che cantare è la sua vera passione, spronata anche dal suo professore che vorrebbe farla iscrivere ad una delle più importanti scuole di cantodi Parigi. Paula è combattuta, da un lato non vorrebbe lasciare la sua famiglia in balìa di loro stessi ma, dall’altro, il suo desiderio di cantare è molto più forte. Così, la ragazza si troverà davanti ad un bivio, restare o lottare per il suo vero futuro?
sabato 27 agosto 2016
Qualcuno da amare di Abbas Kiarostami. 2012
Il professor Watanabe, interpretato da Tadashi Okuno, è un non professionista che ha fatto per cinquant'anni la comparsa senza pronunciare un parola, e che si ritrova a ricoprire un ruolo di primo piano a quanto pare a sua insaputa: è lo stesso Kiarostami ovviamente, come il professore di sociologia, all'epoca al tramonto della sua carriera.
Come in Copia Conforme si salvano solo i suggestivi giochi di luce, anche se qui il lavoro è meno intellettuale.
Tutto ciò a conferma che l'ultimo Kiarostami è totalmente da evitare.
mercoledì 6 gennaio 2016
Il primo uomo di Gianni Amelio. 2011
"se i poveri siamo noi, allora va tutto bene".
ad Albert Camus, morto in un incidente d'auto il 4 gennaio del 1960
Su quell’automobile non doveva salire; nelle tasche aveva il biglietto del treno; al volante c’era Michel Gallimard, nipote del suo editore, che muore cinque giorno dopo all’ospedale. Nella sua sacca, scrive la figlia Catherine, vengono trovate «centoquarantaquattro pagine scritte di getto, a volte senza punti né virgole, con una grafia rapida e difficile da decifrare, mai rielaborate».l testo, incompiuto venne in uno primo momento dattiloscritto dalla moglie di Albert Camus, Francine, e in seguito rielaborato dalla figlia Catherine.
Il regista riprende questo romanzo incompiuto di Albert Camus.
Algeri. Lo scrittore Jean Cormery (alter.ego di scrittore e regista) torna a distanza di anni nella sua terra natale. Il film si apre con Cormery/Camus curvo sulla tomba del padre mai conosciuto, morto nel ’14, a ventinove anni in una trincea sul fronte franco-tedesco. Su quella tomba anonima il figlio che non ha mai conosciuto suo padre perché morto prima che lui nascesse, grida in silenzio tutta l’assurdità di una storia insensata subita dai più. Camus era un pies noire e venne espulso dal Partito Comunista franco/algerino per le sue divergenze con i dirigenti quando questi, su ordine di Stalin, decisero di espellere dal partito gli arabi. Nel 1937 il Partito Comunista Francese, i cui ideali erano quelli dell’uguaglianza, della libertà e della fratellanza, espulsero, quelli che, secondo loro, non essendo francesi non corrispondevano al “modello del comunista francese”.
Come sarebbe il Nord africa se la speranza di Camus di creare una Stato algerino dove i nativi, arabi e europei, potessero vivere insieme con gli stessi diritti e con le stesse possibilità identitarie, si fosse realizzata? … forse non ci chiameremmo più europei e nordafricani, italiani e tunisini ma unicamente mediterranei.
venerdì 4 dicembre 2015
Domicile conjugal di François Truffaut. 1969
Il film si apre con una insistenza quasi voyeristica sulle gambe di Claude Jade (ai tempi, la compagna di Truffaut) che recita la parte di Christine Darbon/Léaud. La ragazza ha un violino in mano perchè si scoprirà poi essere una musicista, e corregge i suoi interlocutori che la chiamano "mademoiselle", perché lei è sposata "No, pas mademoiselle, madame".
Antoine, il novello marito, per lavoro tinge fiori e li vende nel suo negozio, nel cortile del caseggiato in cui vive con la moglie, aiutandola con clienti insolventi. Le tinture di Antoine a volte non riescono, così il ragazzo decide di cambiare lavoro. Viene assunto per un malinteso (uno scambio di lettera di presentazione) in una grande impresa americana, non sarebbe mai stato assunto, si cerca uno che conosca bene l'inglese, mentre il suo inglese è piuttosto maldestro, proprio come ai tempi di "I 400 colpi" quando René non riusciva a pronunciare "Where is the father".
Il suo nuovo lavoro consiste nel manovrare battelli in miniatura che galleggiano in una vasca del parco (come un gioco per bambini). Nasce il primo figlio della coppia. Christine vuole chiamarlo Ghislain, ma Antoine lo registra come Alphonse. (da cui: prime liti).
L'oggetto del desiderio, per essere tale, deve necessariamente essere "altrove" e s'innamora di una giapponese, tradito ancora una volta dai fiori, nei quali la sua amante aveva incastrato messaggi d'amore che fuoriescono dai fiori quando questi si schiudono, Doinel è scoperto dalla moglie e si separano. Deve così abbandonare il domicilio coniugale, ma Antoine si stanca presto dell'avventura esotica, così torna dalla moglie.
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