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martedì 25 aprile 2017

Nessuno si salva da solo di Sergio Castellitto. 2015

Una ex coppia s'incontra in un ristorante radical chic della Capitale per organizzare le vacanze dei figli. Su quel tavolo c’è il corpo stesso del loro amore, di ciò che resta, di ciò che rimpiangono. Il racconto della cena verrà interrotto e nutrito dai flash back del loro passato, quando si sono conosciuti e amati, il coro dei loro amici, quella generazione cresciuta tra “la caduta del muro di Berlino e l’11 settembre” e per tutta la sera, durante quella micidiale cena, proveranno a capire perché non ce l’hanno fatta a stare insieme, a rispettarsi, a crederci.
Sono lontani e soli e ci vuole qualcuno che sta morendo per convincerli che “soli si muore, insieme ci si salva”, perché nessuno si salva da solo.

mercoledì 15 marzo 2017

Ma ma di Julio Medem. 2015

Ma ma è il primo film che guardo di Medem. Vi ho trovato dei chiari riferimenti al cinema sentimentale di Almodóvar,ma con meno maestria e arte. Ne è la chiara imitazione. Una bambina cammina nella neve e guarda in macchina. Quasi un presagio, un segno premonitori di un’immagine dall’aldilà.E' l'estate spagnola della vittoria agli Europei, della crisi finanziaria. Disoccupazione e poi per due volte un carcinoma. Magda è una madre-coraggio eccentrica e positiva, faro illuminante nella vita degli uomini che ha attorno. Ha quella carica propulsiva, quell'energia tipica dei personaggi almodovariani: accetta la malattia come un passaggio o una tappa esistenziale. Dopo la prima mezz'ora ci si rende conto che di originale però sta rimanendo ben poco e dopo l'operazione per il tumore al seno, ho pianto più per via di motivi personali, che per una vera commozione, che viene spesso ricercata, anche forzatamente, ma poi non arriva.
Perchè il cinema spagnolo esaspera le emozioni? Questo dispendio di forze fa barcollare la trama. Involontariamente kitch, senza colpe, le visioni di Magda e il capezzolo congelato non hanno proprio senso. Le emozioni a buon mercato non ci piacciono. Bocciato

martedì 28 febbraio 2017

Taxi Teheran di Jafar Panahi. 2015

Jafar Panahii lo conosciamo tutti. Condannato dal regime iraniano a non fare film, ne ha già diretti clandestinamente tre, ed è riuscito a farli arrivare ai festival e mandarli in giro nel mondo. Taxi Teheran è tutto girato in un taxi, per evitare controlli e censure, un taxi di cui il regista si improvvisa gestore, dunque attore-regista. Poi entra in gioco la sua nipotina, ( non so se vera o presunta)a scuola fanno fare cinema e lei ripete le formule del cinema del regime: l’invito a un “realismo” in tutti i sensi bigotto e autoritario, negazione di ogni confronto vero con la realtà. Nel finale - anche questo girato nel taxi- due poliziotti in borghese penetrano violentemente nella macchina momentaneamente abbandonata da Panahi e dalla nipote, alla ricerca di un “girato” da distruggere o di cui servirsi contro il regista. Pura poesia il dialogo con un’amica avvocato dei diritti civili che, con la stessa ostinazione del regista, continua nonostante tutto il suo lavoro, negli estremi limiti di uno stato di polizia, dicendo serenamente che si deve tirare avanti. Come in "Dieci" di Kiarostami, il taxi diventa una sorta di teatro in movimento, luogo chiuso e al tempo stesso aperto, spazio ideale, quindi, per raccontare una società affascinante e contraddittoria dove il cinico disincanto si alterna a superstizioni che sembrano provenire da epoche lontane. Un road movie per parlare in maniera leggera di giustizia, pena capitale, diritti delle donne e dell'indigenza in cui versa una parte della popolazione.
La sua camera che si accende e che lui gira e rigira è il suo cuore pulsante, quello che non si è arreso. Di fronte ai dubbi della nipotina sulle norme di autocensura volute dal regime per chiunque voglia fare cinema, così come agli inquietanti resoconti di realtà carceraria riportati dalla donna di legge, il regista si limita a sorridere. E il suo sorriso ci fa sperare.

lunedì 9 gennaio 2017

Dio esiste e vive a Bruxelles (Le tout nouveau testament, Jaco Van Dormael, 2015)

Montato durante i brutti giorni degli attentati alla sede di Charlie Hebdo, Dio è un annoiato e dimesso signore di mezza età ( l’attore belga Benoit Poelvoorde) che vive a Bruxelles con moglie e figlia e che ha come effettivo divertimento quello di tirare le fila di tutte le nostre esistenze da un computer situato in una stanza super-blindata. Sua moglie non è la Madonna e sua figlia è una ragazzina ribelle che non ne vuol proprio sapere delle passioni un po’ crudeli del padre e si diverte anzi a dialogare e a confidarsi un po’ con la ‘figurina parlante’ del fratello J. C. (Jesus Christ), che l’ha preceduta nell’‘indipendenza’ da un padre così ‘ingombrante’. La sua indipendenza comincia, invece,da un oblò della lavatrice e dopo aver superato un lungo e angusto corridoio, la ragazzina cerca sei nuovi ‘apostoli’ per scrivere il suo ‘Nuovo Nuovo Testamento’, facendo in modo che gli apostoli diventino così 18, per la gioia della madre, che avrà infatti un ruolo-chiave alla fine del film.
Questo burbero Dio passa il suo tempo a rendere “leggi” (un po’ come quelle di Murphy) spiacevoli situazioni di vita quotidiana come “una fetta biscottata con marmellata che cadrà sul pavimento lo farà sempre sul lato sbagliato” o “la fila accanto alla tua andrà sempre più veloce”. Ha creato Bruxelles solo perché si annoiava, ma è lì che dovrà “scendere” se vorrà recuperare la figlia Ea colpevole di avergli mandato in tilt il pc e inviato a tutti i cittadini un sms con la data della loro morte.Ed allora ecco che non si può più aspettare per lasciare la propria moglie che non si ama più o per vestirsi da ragazza anche se si è maschietti o, addirittura, per diventare vittima di un colpo di fulmine con un gorilla conosciuto al circo (Catherine Deneuve in uno dei suoi ruoli più dissacranti di sempre). Bruxelles è grigia, alla Jacques Brel, città dove i musulmani sono la comunità più numerosa, dove esistono gruppi di fanatici che perseguitano chiunque (altri musulmani inclusi) non rispetti alla lettera la legge coranica. Un film imperfetto, ricco di toni trasognati che suggerisce: Il paradiso è qui e ora, non dopo la morte. Non vivremo a lungo. Godetevela e fate ciò che vi rende felici

mercoledì 5 ottobre 2016

Mustang di Deniz Gamze Ergüven. 2015

Se vogliamo capire qualcosa in più delle tensioni che sta vivendo la Turchia di oggi, non possiamo che rivolgerci al cinema e alle sue storie nel momento in cui Erdogan mette il bavaglio alla stampa locale e l’Occidente sembra incapace di guardare oltre il suo naso.
I Mustang sono dei cavalli selvaggi, simbolo qui delle cinque protagoniste del film. Indomabili e focose, scorrazzano con i loro capelli lunghissimi, simili a delle criniere.Sullo sfondo il bellissimo mar Nero, con le sue schiumose increspature, accompagnato a una natura rigogliosa e benevola a far da teatro e mise en scéne di un’innocente evasione estiva, presto scoperta dai famigliari delle cinque donne in erba. Una mattina, conclusa la scuola, le "sfacciate" sorelle si abbandonano alla luce dell’estate appena esplosa con giocosa innocenza. Spinte da un irrefrenabile desiderio di evasione, che assumerà i connotati di una condanna, si tuffano in mare insieme ad altri coetanei maschi compagni di scuola. Tra risate e giochi in mezzo alle onde si insinua lo scandalo. A Inébolu, villaggio contadino a 600km da Istanbul in cui lo scenario filmico si dispiega, nell'abitazione delle cinque saranno apposte sbarre d’acciaio a porte e finestre, simbolo di detenzione e divieto assoluto di ogni intenzionale apertura verso un’altrove spudorato e corrotto. Poi il soffocante odore stantio di un rigido schema comportamentale che relegherebbe le donne, secondo l’anacronistica tradizione turca, ad una condizione di perfette “massaie” pronte ad esser consegnate, vergini, ai più baldanzosi pretendenti di sesso opposto. Lo scopo? incarnare e realizzare l’ottuso condizionamento sociale, unica virtù.«È difficile educare delle ragazze al giorno d’oggi», dirà ad un certo punto la nonna, educatrice in buona fede ormai del tutto assuefatta dalla tradizione (per lei è naturale non conoscere l’uomo che si deve sposare, «tanto poi si impara a volergli bene con il tempo».

martedì 6 settembre 2016

Non essere cattivo di Claudio Caligari. 2015

È l’ultimo film del regista Claudio Caligari, morto a 67 anni nel 2015. “La vita è dura e se non sei duro come la vita non vai avanti”, dice Cesare, il più mosso, nevrotico, aggressivo dei due amici protagonisti. “I sòrdi ce vonno”, e di conseguenza lo spaccio, perché “tanta gente ce campa”. I cattivi non sono solo cattivi, e non sempre è colpa loro se lo sono. Ostia di metà anni 90, sul lungomare autunnale, un non luogo per eccellenza: il lido della Capitale ripreso allo spegnersi delle luci estive. Lì, tra il nulla e il vuoto, c'è la storia di Cesare e Vittorio, amici per la pelle da quando erano ragazzini, che tentano strenuamente di dare un senso alle loro giornate sballandosi in continuazione e inframmezzando il rito del "farsi" con piccole attività illecite, utili giusto per comprare la prossima dose da "spararsi". Qualche spaccio al molo, qualche truffa facile facile, magari qualche scippo o rapina non troppo rischiosi. Questa è la loro vita, costellata di presenze simili a loro: giovani e meno giovani emarginati da un progresso che li ha relegati ai margini della società, scarti umani che provano a sopravvivere all'ombra della Roma ripulita dei primi anni 90.
"Non essere cattivo", il titolo, è stampato a caratteri cubitali su una maglietta che la piccola Debora infila al suo orsacchiotto. Un invito, una raccomandazione, una speranza. Ma il fatto è che nessuno è davvero cattivo.Soprattutto Linda che trascina Vittorio fuori dalla merda, ma poi chiede secca «te basta quello che avemo?»; Viviana, che crede contro ogni evidenza al futuro costruitole da Cesare dentro una catapecchia pericolante. Forse, a essere cattiva, è Ostia: quella spiaggia infinita battuta dal vento che coltiva siringhe tra gli ombrelloni, quei quartieri popolari che sulla fine del millennio vanno imborghesendosi, tranciando fuori chi non s’adegua o non sa adeguarsi, quel mare da non guardare «che sinnò te vengono i pensieri». Di un altrove che non c’è. Ma se vi è capitato di essere più o meno giovani in una qualsiasi periferia degli anni 90, Non essere cattivo vi sembrerà familiare: stesso paesaggio urbano squallido, stesse facce tese, stessi occhi sul punto di schizzare dalle orbite, stesso drammatico deserto di alternative, di prospettive, di senso.

martedì 30 agosto 2016

Le Regole del Caos di Alan Rickman. 2015

La differenza tra il mondo di Sabine e quello delle piante sta tutto nella consapevolezza; lei è consapevole di morire dentro, una pianta no.
Al palazzo di Versailles fervono nuovi preparativi: il re Sole vuole un nuovo giardino che celebri la bellezza ed il fascino della sua corte. Viene così indetto un bando per trovare l’architetto/paesaggista che affiancherà André Le Notre il “giardiniere di corte”. E’ lo stesso André Le Notre a condurre la scelta ed inaspettatamente si vede presentare una persona che non si aspettava: un architetto e paesaggista donna. Madame Sabine De Barra è una donna forte, orgogliosa amante della natura, dei fiori e dei giardini poco amante invero delle regole e dei canoni. André Le Notre decide inizialmente di scartare il lavoro di Sabine, ma ne è rimasto talmente impressionato da rifletterci sopra e tornare sulla sua decisione.Un film indipendente dal budget ridotto, eppure 'ricco' nei costumi e nelle scenografie, riadattate in Inghilterra e non in Francia proprio per una questione di 'risparmio'.Tutti alla corte francese, per scoprire con stupore che la principessa Elizabeth Charlotte accetta che il marito, il principe Filippo (un delizioso Stanley Tucci) intrattenga una relazione con il duca Antoine, purché si occupi di lei e dei loro figli.

lunedì 29 agosto 2016

La Famiglia Belier di Eric Lartigau. 2015

"Cosa fai? Chiudi quegli occhi e fa volare la tua anima...".
Belier che in francese significa montone è il cognome di una famiglia formata da madre, padre e due figli adolescenti,tutti sordomuti tranne la primogenita sedicenne Paula. Sono allevatori di bestiame e produttori di formaggi, grazie alla ‘parola' di Paula, l'unica in grado di dialogare con loro (tramite il linguaggio dei segni) e anche con il mondo esterno (attraverso il linguaggio convenzionale).Nella cucina soleggiata e multi-accessoriata la famiglia Bélier inizia una comune giornata di scuola e lavoro. Posate e piatti tintinnano sonoramente: confortanti segni della vita amena della campagna francese. Paula salta in bici, cuffie e va. La sua vita prende una piega diversa nel momento in cui si iscrive al corso di coro della scuola, dove scopre che cantare è la sua vera passione, spronata anche dal suo professore che vorrebbe farla iscrivere ad una delle più importanti scuole di cantodi Parigi. Paula è combattuta, da un lato non vorrebbe lasciare la sua famiglia in balìa di loro stessi ma, dall’altro, il suo desiderio di cantare è molto più forte. Così, la ragazza si troverà davanti ad un bivio, restare o lottare per il suo vero futuro?

martedì 21 giugno 2016

Ho Ucciso Napoleone di Giorgia farina.2015

«tutte le volte che esco con un uomo penso se è lui il padre con cui voglio che i miei figli trascorrano due weekend al mese» Il primo film di Giorgia Farina è Amiche da morire, ed è un piccolo gioiello di scrittura di Fabio Bonifacci. Ho Ucciso Napoleone ,invece, è una sceneggiatura scritta dalla stessa Giorgia Farina (aiutata da Federica Pontremoli) molto più nonsense. Una commedia pulp, dall'umorismo inglese, che, porta Anita (addetta alle risorse umane in una casa farmaeutica) a ritrovarsi, seduta sull'altalena di un parco giochi, licenziata in tronco e incinta del suo capo Paride alias Adriano Giannini, sposato padre di famiglia di cui è amante clandestina, ma anche che la conduce con glaciale freddezza a pretendere che tutto torni come prima, inclusa la libertà di non impegnata sentimentalmente senza figli. Non male la prima parte, meno la seconda chesconfina troppo nel surreale, per poi arrivare ad una salomonica conclusione con Anita riassunta in azienda e (apparentemente) di nuovo legata al suo capo. Biagio, una volta scoperte le sue malefatte, fugge all’estero e riesce a farsi assumere a Parigi da un’altra azienda (ignara della sua vera personalità). Il titolo riprende un’azione compiuta da Anita nel corso del film: non sapendo cosa farsene, uccide Napoleone, il pesce rosso che le è stato temporaneamente affidato da una bambina che vive con la propria famiglia nell’appartamento accanto al suo.

giovedì 4 febbraio 2016

Joy di David O. Russell. 2016

David O. Russell fa un cinema popolare che racconta le vite difficili di statunitensi normali. A raccontare la storia è la nonna di Joy, l'unica della sua famiglia a credere in lei.
Ha una sorellastra approfittatrice che parla male di lei ai suoi figli e poi tante, troppe bollette da pagare.Ma la storia di un personaggio che sfida convenzioni sociali e ambiente ostile per realizzarsi è stata raccontata milioni di volte.La vera Joy Mangano è nota per un mocio, un trolley a scomparti, delle grucce salvaspazio, delle barrette cattura odori e un asciugabiancheria da viaggio. Sarebbe bastato un documentario, un film drammatico è troppo. Non c'è storia. Sceneggiatura schematica e banale.salverei solo l'idea di rappresentare una società vorace, incapace di aspettare, insensibile e refrattaria nei confronti del talento. ma a febbraio non c'è nulla di meglio in sala.

mercoledì 27 gennaio 2016

La corrispondenza di Giuseppe Tornatore. 2016

«mi piace riaprire gli occhi alla fine di ogni morte»
Amy Ryan è una studentessa fuori corso di astrofisica che nel tempo libero lavora per il cinema e la tv cimentandosi in controfigure acrobatiche, incidenti, salti mortali, impiccagioni. E mentre il suo doppio soccombe tra fiamme e atrocità lei si risveglia nella vita reale, più forte di prima, convinta di aver fatto un passo avanti nell’espiazione di un vecchio senso di colpa che lascia a marcire nella melma del cuore. Ama solo ed esclusivamente il professore Ed Phoerum, il quale a un tratto però sembra essere svanito nel nulla, lasciando attorno a sè solo un anelito di segni che, se da un lato consolano la sua compagna, dall’altro la travolgono in una matassa di incertezze ed enigmi difficile da districare. Scritto malissimo. Bastano i primi 2 minuti per capire che il problema più grosso del nuovo lavoro di Tornatore sono i dialoghi. Peccato…ma proprio nun se pò vedè. TNT ti sostiene sempre, anche dopo la tua dipartita. Ridicolo!! Unica frase che salverei:«mi piace riaprire gli occhi alla fine di ogni morte» e poi le tette e le lacrime di Olga Kurylenko

martedì 29 dicembre 2015

Irrational Man di Woody Allen. 2015

La logica è sì incrollabile ma non resiste a un uomo che vuole vivere
Eccolo il 45esimo film firmato Allen, uscito nell’anno del suo 80° compleanno, con il cui il regista si diverte a sbeffeggiare la filosofia. E lo fa con il protagonista Abe Lucas, professore di filosofia in un college americano, che dorme con L’idiota di Dostoevskij sul comodino, ma che è sicuramente un uomo che vuole (ri)vivere e per farlo sfida la Logica, anzi la razionalità. L'irrational man del titolo, è ovviamente proprio lui, dimosterà che essere irrazionali è un controsenso: perchè dovremmo usare comunque la ragione per pensare di andare contro di essa. Simbolo di questa situazione umana è un dialogo in cui lo stesso Lucas, citando Kant, descrive quanto il mondo della Legge Morale del filosofo tedesco (dove la bugia non esiste e quindi se un nazista chiedesse “dov’è Anna Frank?” noi, qualora lo sapessimo, saremmo obbligati a dire la verità) sia totalmente utopico e distante dalla realtà dove ci sono, e sono tangibili, l’odio e la cattiveria. Allen, non andare in pensione!! Buone feste

venerdì 16 ottobre 2015

Lo stagista inaspettato di Nancy Meyers. 2015

A mio padre
"Una volta ho letto che i musicisti non vanno in pensione.Smettono quando si accorgono di non avere più musica da dare. Beh, io ho ancora musica da dare, ne sono assolutamente certo."
Vedovo e pensionato settantenne, Ben passa il tempo tra funerali, yoga e stratagemmi per ingannare la solitudine:le sessioni di tai chi nel parco, i caffè di Starbucks presi alle 7.15 di ogni mattina, solo per sentirsi parte del frenetico mondo del lavoro. Finché, grazie a una start-up per il riutilizzo degli anziani, non diventa stagista senior nell'e-commerce della moda. La stressatissima Jules Ostin è l'amministratrice che aiuterà Ben ad invecchiare, facendolo ancora sentire utile, "la seconda possibilità" che tutti cercano.Non sarà un esempio di realismo, ma tanto meglio se Ben, nonno super-idealizzato, comprensivo, fiero dell'esperienza quanto aperto al cambiamento, darà una mano a rivalutare una fascia anagrafica che oggi gode di scarsa popolarità. E la regista centra l'obiettivo soprattutto grazie a l’uomo anziano che è qui Robert De Niro, che, come il suo personaggio, di andare in pensione non ci pensa proprio. Ne Lo Stagista Inaspettato lo vediamo tenersi pericolosamente in bilico tra il simpatico e il disagiato, ma alla fine porta decisamente a casa una prestazione quantomeno efficace. Vintage e imbattibile come la 24 ore di pelle che usa, virile con classe come il fazzoletto di stoffa che ha sempre appresso, Ben non è il solito vecchietto arzillo da commedia senescente ma la personificazione del contrasto contemporaneo tra corsa al progresso e passione retro per tutto ciò che viene da un’altra epoca. “Mentre le donne hanno intrapreso un percorso da ragazze a donne, gli uomini sono passati dall’essere uomini, a ragazzi. Mentre alle ragazze veniva detto che potevano riuscire a fare qualunque cosa, credo che invece gli uomini si siano un po’ persi lungo la strada e stiano ancora cercando di capirne il perché

lunedì 28 settembre 2015

Inside out di Pete Docter.2015

L’ultimo film della casa di produzione californiana Inside Out conclude la propria parabola con una sola morale: nella vita non c’è gioia senza tristezza. Riley è una bambina del Minnesota che si trasferisce a San Francisco con la famiglia, e lo fa dal punto di vista della sua mente: cioè, protagonisti sono le emozioni del suo cervello, Gioia, Tristezza, Paura, Disgusto e Rabbia. Da una plancia di comando in questo momento così critico gestiscono le sue reazioni, fin quando Gioia e Tristezza finiscono da un'altra parte e la seconda parte del film racconta i loro tentativi di ritornare al quartier generale,mentre Riley cerca di tornare felice com’era nel Minnesota, sentendosi sperduta a San Francisco. La Pixar il suo mestiere lo fa bene: da un lato c’è la rilettura “post-moderna” dell’immaginario collettivo (i supereroi, la fiaba…), e dell’altro c’è la rielaborazione fantastica dei processi educativi, comportamentali ed emotivi che fanno parte del nostro vissuto quotidiano, come il rapporto con il gioco (Toy Story), le paure infantili (Monsters & Co.), il piacere sensoriale (Ratatouille) e il trauma della perdita (Up). Attraverso l’esplorazione matura e autocosciente delle emozioni umane, il film delinea un percorso formativo delicatissimo che porta Riley (e le sue emozioni primarie) ad acquisire una nuova consapevolezza di sé, accettando l’idea che sia sempre necessario sacrificare qualcosa del proprio passato per sopravvivere alle ingerenze del futuro. La collaborazione tra Gioia e Tristezza – in passato considerate antitetiche – è l’emblema di questo cambiamento, Riley sta crescendo.

venerdì 5 giugno 2015

"Youth - La giovinezza" di Paolo Sorrentino. 2015

"L’ho chiamato Giovinezza perché se lo avessi chiamato Vecchiaia non lo sarebbe andato a vedere nessuno” (Paolo Sorrentino). «Tout enfant, j’ai senti dans mon coeur deux sentiments contradictoires: l’horreur de la vie et l’extase de la vie (fin da piccolo ho sentito nel mio cuore due sentimenti contradditori: l’orrore della vita e l’estasi della vita)» - Mon cœur mis à nu, Charles Baudelaire
Orrore che conduce all'estasi. Ho scelto di citare Baudelaire perchè è il messaggio, a me, veicolato dal film. Ho seguito per 120 minuti i passi e i gesti lenti di due generazioni sconfitte: quella degli ex-giovani e quella dei futuri vecchi. Non una senilità in senso sveviano, ma una vecchiaia fatta di consapevolezze, “Youth” mette a nudo una certa borghesia ben pensante di oggi molto snob, molto superficiale, intellettualistica – e per questo intrinsecamente volgare – statica, ma al contempo instabile per vocazione, reazionaria e pavida, in definitiva significativamente insignificante. Umani in vacanza si, ma dalla vita, ormai priva di impegni e interessi, in apparenza. Caine e Keitel sono amici di vecchia data ma hanno un rapporto strano: si raccontano solo alcune cose, senza mai dirsela fino in fondo; discutono e talora mentono spudoratamente anche sul lontanissimo passato: ‘ti sei poi portato a letto quella bellissima ragazza che amavo?’ Quanto durerà la bellezza di quel corpo perfetto di Miss Mondo? Caine ha tradito tante volte la moglie, così tante da avere sempre più la conferma che è lei l'unica ‘musa’, il punto di riferimento, tanto che oggi è proprio lei (e non la musica, non l’arte) a mancargli tanto: 'Le canzoni semplici. quelle le deve cantare solo mia moglie, le ho fatte per lei, e lei oggi non c’è più’.; la figlia invece soffre della fragilità dei sentimenti e degli ‘impegni di vita’ delle nuove generazioni, per le quali un matrimonio spesso non regge a lungo, senza che neppure si capisca bene perché finisca. La leggerezza, il compromesso, nella vita non è un difetto - suggerisce la chiosa del film-.Sorrentino mi cattura perchè in lui riconosco l’essere vittima dell’orologio biologico, della clessidra della vita,la paura della morte, che è anche la mia. Con Youth, forse lui, è riuscito a superare questa ossessione e proprio grazie alla passione per ciò in cui crede fermamente, la settima arte, che ha trovato il suo riscatto. O almeno glielo auguriamo. Prima o poi guarderò anche "la grande bellezza".

giovedì 30 aprile 2015

Adaline - L'eterna giovinezza di Lee Toland Krieger. 2015

Quanto sollievo, alle volte, può destare un capello bianco, perchè Adeline sembra una giovane donna impiegata in una biblioteca, ma in realtà mentre, intenta a sbobinare una vecchia pellicola dei primi anni del 900, attraversa eventi, luoghi, accadimenti, ci fa scorgere in quelle immagini proiettate, momenti salienti della sua vita che si è fermata appunto in un giovane tempo. Tutto ebbe inizio nel 1908 quando ella nacque, eppure giureresti che l'ambientazione non ti è sembrata così vetusta; poi ormai cresciuta, ebbe un tragico incidente con la sua automobile, momento tragico in cui rischio’ la vita, se non fosse stato per la coincidenza di fenomeni fisici, climatici e forse anche di magia che la coinvolsero a tal punto da restituirla da quel momento in poi per sempre giovane alla vita. Adaline da quel momento in poi cessa d'invecchiare, si fermerà per sempre a 29 anni. Ogni dieci anni, per non finire in un laboratorio come cavia, deve però cambiare vita e identità, uffici, lavori, persone, ambienti..ma non sicuramente l’amore per sua figlia, che, intanto, cresce, invecchia e sembra sua nonna. Adaline (ma anche Jennifer e altri nomi) è testimone di quel “diventare spettro” a cui si riferiva Barthes quando assimilava la fotografia ad un’esperienza di morte. Poco scavo psicologico, possibile che la figlia sia così serena e senza traumi nel vedere sua madre sempre così giovane? Scontato il finale e privo di colpi di scena, tutto viene salvato da recitazione e fotografia.

giovedì 23 aprile 2015

Mia Madre di Nanni Moretti. 2015

“Perché fate sempre quello che dico? Il regista è uno stronzo, a cui voi permettete di fare tutto!”
La storia dell'elaborazione di un lutto vero, la morte della madre, Agata Apicella, professoressa di lettere al ginnasio, scomparsa nel 2010 durante il montaggio di "Habemus Papam". L’attore è a fianco e non dentro il personaggio, così Margherita Buy diventa qui il doppio di Nanni Moretti, lui, nei panni di se stesso è la parte saggia, moderata, calibrata, l'altra femminile è più nevrotica e confusionaria. Margherita è Nanni Moretti, è il Nanni Moretti sofferente che proietta se stesso continuamente in ogni personaggio, ma che profondamente teme se stesso. Ottima Margherita Buy, la sua migliore interpretazione, Moretti è, invece, Giovanni, il fratello pacato di Margherita, ma il film rimane emotivamente privato, è "sua" madre che muore e per quanto sia un taglio al cordone ombelicale per tutti, non si sente la sofferenza personale. Moretti non voleva farci piangere, questo è sicuro, non avrebbe mai puntato su una scleta così banale e facile: il consenso tramite il sentimentalismo, la pornografia dei programmi mediaset. Il dolore vero è laterale, hai troppo pudore per far vedere che ti ha dilaniato il cuore. Ma una bolletta che non si trova diventa quell'escamotage in cui poi dare sfogo alle lacrime, tanto che un appartamento si allaga e i quotidiani (il quotidiano, il ricordo) non assorbono nulla. Tu dirigi un film e tua madre fuori dal set sta morendo, Giovanni lascia il lavoro, lui è un bambino, non si sente affatto "troppo vecchio per trovarne un altro". Il dolore è sottrazione, "mi si nota di più se alla festa non ci vado?" Diversamente dal fratello, Margherita non smette di lavorare, ma, pur avvertendo l'inautenticità del suo film, si limita a piccole insofferenze come quella verso il trucco degli attori, critica il loro aspetto fisico, poco vero. Nel disagio che si avverte sul suo set si sente il cattivo sapore del cattivo cinema, un cinema che non riesce più a cogliere la realtà, né a dire il vero. Lei alla conferenza stampa non sa cosa dire, recita. "A cosa pensi", dice la Buy alla madre, sul letto di morte. "A domani", risponde lei.

giovedì 9 aprile 2015

La scelta di Michele Placido. 2015

Il drammatico proprio non si addice a Michele Placido e mi chiedo che cosa gli abbia fatto di male Pirandello. Il film funziona solo quando Placido è nei panni del commissario, il sentimentale è lontano anni luce dalle sue possibilità. In La Scelta c’è uno stupro (rigorosamente fuoricampo) che cambia l’equilibrio della coppia protagonista, equilibrio che non si capisce nemmeno prima dello stupro. Cercavano di avere figli da tempo e senza successo mentre ora, avvenuta la violenza, lei è incinta e forse appositamente solo pochi giorni dopo la violenza ha insistito per fare sesso, così che la paternità sia incerta. Decisa a non sporgere denuncia e cancellare l’evento violento dalla sua vita lei, determinato ad affrontare la questione e a non avere il figlio di un altro lui, si scontrano mettendo a repentaglio la loro unione.

venerdì 3 aprile 2015

Le dernier loup di Jean-Jacques Annaud. 2015

"Non si cattura un dio per farne uno schiavo"
1969 e piena rivoluzione culturale, Chen Zhen, un giovane studente di Pechino viene inviato nelle zone interne della Mongolia per insegnare a una tribù nomade di pastori a leggere e scrivere. Ma sarà Chen ad imparare: conoscerà, fino ad innamorarsene, la steppa e il dio della steppa, il lupo . Sedotto dal complesso e quasi mistico legame che i pastori hanno con il lupo e affascinato dall'astuzia e dalla forza dell'animale, Chen ne cattura un cucciolo per studiarlo e addomesticarlo. Ma qui, i lupi della regione, quando non hanno gazzelle a sufficienza per sfamarsi, vengono eliminati...e sarà incontro/scontro tra uomo e natura. Il lupo per i mongoli è un Dio, parte da questo preupposto Lü Jiamin. lo scrittore cinese che sfidò il comunismo, guardia rossa eretica che scelse di esser mandato lì in rieducazione per salvare dal rogo i suoi amati libri (nel film questo particolare è appena accennato). Chen Zhen (alias di Lü Jiamin), testimonia la storia di un’epoca di grandi mistificazioni, di modelli culturali imposti con la forza e di indicibili sofferenze procurate al popolo. Seppur WWF (il salotto bene dell’ambientalismo) affianchi alla promozione del film il progetto “Adotta un lupo” (un nome tremendamente discordante col filo conduttore del film), i predatori di Annaud sembrano il lupo cattivo di Cappuccetto Rosso. Troppo sempliciotti e favolistici i dialoghi.
Il film narra anche dello scontro tra una civiltà fondata solo sulle dottrine e sui libri e una barbarie libera e feroce che basa le proprie conoscenze sull’esperienza vissuta, sulla forza forgiata proprio nell’affrontare e provare sulla propria pelle le difficoltà più estreme, sulla saggezza popolare fondata sulle cose più semplici e che spesso ridicolizza le convinzioni più moderne ed “evolute”. Scontro che si trasformerà ben presto in astio tra il popolo cinese, mercante e mangiatore di riso, verso il popolo mongolo, cacciatore e mangiatore di carne, ritenuto rozzo ed analfabeta ma che proprio per la sua superiorità spirituale e fisica era riuscito a piegare i propri nemici fondando l’Impero più vasto del mondo, fatto per cui i cinesi ancora provano rancore. E quest’astio si concretizzerà nell’odio irrazionale e brutale da parte dei cittadini, dei contadini, dei cinesi e del governo comunista verso la figura del Lupo, il totem del popolo delle steppe. Da qui l'ordine dello sterminio: il Lupo rappresenta la vita, mentre i poveri piccoli animali erbivori che i cinesi vogliono salvare dai cattivi predatori carnivori, sono i più dannosi perché divorano l’erba. P.S. Per chi non lo sapesse in bocca al lupo è un bell’augurio perché la mamma lupa tiene i suoi cuccioli in bocca per proteggerli. P.S.S. I lupi non si suicidano

venerdì 27 marzo 2015

Suite francese di Saul Dibb. 2015 (Dal romanzo di Irène Némirovsky)

Ho cercato di dimenticare le cose del passato, ma la musica mi porta indietro
3 giugno del 1940, dominazione tedesca in Francia, con Vichy. Una signora francese con marito disperso al fronte si innamora di un tenente della Wehrmacht, colto e sensibile: come lei, suona il pianoforte e compone. Nonostante le iniziali resistenze di lei, tra i due nasce un’appassionata storia d’amore che la farà etichettare da alcuni come collaborazionista, da altri come ragazza da ammirare, ma la realtà è che “nessuno sapeva come si sentiva”. L'infedeltà di Lucile non è solo coniugale ma assume i toni gravi di un tradimento alla propria nazione, per un nemico amato che le fa dimenticare il proprio dovere di cittadina e di moglie. In questo film manca il dolore autentico del libro. Di francese questo film ha solo il titolo e i riferimenti storici, la storia è girata tutto in inglese e con attori anglofoni. Moltissimi limiti, dati anche dall'avvincente genesi letteraria dal romanzo di Irene Némirovsky, che di per sè meriterebbe di finire nelle sale. Buona resa della psicologia e delle velleità dei personaggi femminili, tutto aiuta a creare emozione in in film che sa diramarne poche. Le lacrime arrivano con le parole che appaiono sullo schermo subito dopo la scena finale, vi colpiranno dritto al cuore. Un merito, uno solo, però il film ce l’ha, spingerci a saperne di più della Némirovsky, perchè tra gli infelici che non videro la fine della guerra c’è stata proprio lei: Irène Némirovsky.

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