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giovedì 14 febbraio 2019

Green Book, di Peter Farrelly. 2019

"Tu eri l’unico a poter scegliere se stare fuori o dentro”
Probabilmente non vincerà gli Oscar giusti, forse non esistono le categorie adatte, perchè il grande merito di Green Book è di saper creare un’alchimia rara e di farla vivere attraverso i due protagonisti, i due outsider, i due pesci fuori d’acqua, quelle persone di cui il giorno di San Valentino senti la mancanza. Le persone giuste, quelle speciali. Quelle che non ti mollano, che non ti tradiscono, che ci sono sempre per te. Don Shirley è un uomo di grande cultura e riservatezza, quasi (e forse senza quasi) snob; Tony è il tipico macho di strada, estroverso, chiassoso, duro, di pancia che a volte vorresti strozzare. Ma anche abbracciare. Il Negro Motorist Green Book è una sorta di guida turistica pubblicata annualmente dal 1936 al 1966, che elencava le strutture che ammettevano e servivano clienti di colore. "African-American friendly”, in modo tale da proteggere il più possibile coloro che decidevano di mettersi sulla strada in posti estremamente razzisti. In questo viaggio non c’è bisogno di scavare per ottenere una morale; è sempre presente, nelle battute, in quelle amare, in quelle apparentemente leggere, intrinseca nella sceneggiatura e nelle interpretazioni dei personaggi. Si trova nel razzista Sud del Paese, in un road movie consapevole di territori non facili per un uomo con la pelle scura. Lontano dal voler a tutti i costi catalogarsi come film d'autore, ma di leggera ed elegante (e quindi pungente il doppio) denuncia sociale. C'è tutto. Mahershala_Ali bellissimo e portentoso, un automobile, un pianoforte e la musica. Irresistibile. Questo film fa stare bene. Consigliato sotto ogni punto di vista.

giovedì 24 gennaio 2019

Youtopia di Berardo Carboni. 2018

Opera di estrema attualità, soprattutto per i millenials, la generazione connessa per eccellenza. Youtopia è la storia di una ragazza che si spoglia online per racimolare i soldi. L’unico modo per evadere dalla sua cruda realtà è rappresentato sempre dal web, un videogioco, dal nome “Landing”, dove, Matilda si trasforma in un avatar, libera mondi dai mostri insieme al compagno Hiro; qui riesce a vivere emozioni vere, reali nonostante sia solo un’“utopia”. Deciderà di mettere all’asta la sua verginità per non dover vendere invece la casa. Un farmacista ricco ed eccitato, in cerca di sesso a pagamento, accetterà di pagare. Botanico mancato, è ossessionato dalla bellezza e dalla gioventù, a caccia di primavere proibite.
La legge del mercato farà il resto: domanda e offerta si incontreranno. Tutti i personaggi vivono una sorta di straniamento e un allontanamento dalla percezione della realtà: per Matilde è risultato del digitale, la nonna è vittima di un delirio senile,l’acquirente caduto in una dipendenza da desiderio insoddisfatto tipicamente alto borghese. Perchè abbiamo tutti una doppia vita. Per scelta, per disperazione, o anche solo per sopravvivere alla prima.

domenica 6 gennaio 2019

Cold war di Paweł Pawlikowski. 2018

Andiamo dall’altra parte, la vista è migliore da lì”. Con la dedica finale di Pawlikowski, “ai miei genitori” capiamo che i due protagonisti non condividono solo il nome di battesimo (Wiktor, pianista e arrangiatore colto e malinconico e Zula, la sua allieva) dei genitori del regista, ma che ad essere narrata è proprio loro storia, un tentativo di riportarli in vita per farli tornare a suonare, cantare e danzare quell’amore così travolgente e impossibile, tra una Berlino divisa in due, la Jugoslavia e la Parigi bohémien. In una Polonia devastata dalla guerra c’è chi pensa che la ricostruzione passi pure dall’Arte, cioè il“Mazowsze”, corpo di ballo e canti popolari nato per volontà del governo filosovietico, esportato in tutto il blocco orientale nell’arco degli anni ’50, su cui il governo mette gli occhi, trasformandolo in uno strumento di propaganda comunista. Il musicista e direttore della compagnia s'innamora della misteriosa allieva Zula. Arrivati a Berlino Est per un’esibizione, Wiktor organizza la fuga dall’altra parte del blocco per vivere finalmente in libertà quella storia d’amore. Ma Zula, contro ogni previsione, non si presenta all’appuntamento concordato. Non ha rimostranze contro il comunismo e anzi teme la libertà del blocco occidentale, che percepisce come un ostacolo che evidenzia la distanza culturale con il suo amato. La vita da esuli, pur ricca di successi artistici e musicali, li consuma, li priva della loro identità e li rende deboli. Lei annega nell'alcol, lui in una debolezza cronica e priva di carattere. Zula, infatti, dirà ad un certo punto al suo uomo: «non sei più lo stesso che eri in Polonia».
C'è per tutto il film un apparente freddezza emotiva, la passione di Zula e Viktor racchiude, infatti, e diventa l'emblema dello spirito polacco, quello di un popolo oppresso da nazisti e comunisti. Ma l’amore è una ragazza che ti volta le spalle e se ne va per sempre: poi esita, si ferma, torna indietro correndo e ti bacia. Grazie per quel brivido. E per tutta la sensualità del montaggio, per l'importanza data alla musica, dove ciò che viene cantato è importante più di ciò che viene detto. Magnetica Joanna Kulig

sabato 29 dicembre 2018

Capri-Revolution di Mario Martone. 2018

Una comune di artisti e giovani -capitanata da un guru bello, biondo e americano che sembra Jesus Christ Superstar- vive tra le montagne di Capri all’alba della prima guerra mondiale. Una pastorella del posto entra in contatto con il sopracitato guru vegetariano/utopista/ecologista/nudista/spiritualista orientale e finisce per scoprire se stessa in quanto donna non più soggetta ai padroni maschi di casa (i due fratelli maggiori) L’aspetto più interessante di Capri-Revolution è il legame con Noi credevamo e Il giovane favoloso, cioè la necessità di riflettere sul Tempo e la Storia. Nel raccontare gli eventi che anticiparono e seguirono il Risorgimento, Noi credevamo tracciava una riflessione sul tradimento della lotta partigiana nella società post-costituente; e Il giovane favoloso oltre a trasformare in immagini la biografia di Giacomo Leopardi, ce lo infiocchetta come se si trattasse di un esponente della cultura punk di fine anni Settanta. Qui, invece, Martone si concentra sul fallimento dell'utopia sessantottina: il pittore Karl Wilhelm Diefenbach creò sul serio una comune a Capri nei primi del Novecento, anticipando gli hippie. Troppa carne al fuoco: Lucia e la sua rivalsa di contadinella analfabeta , il conflitto culturale tra la comune e la cittadinanza, i rivoluzionari russi esuli che stanno preparando il 1917, l'arrivo dell'elettricità sull'isola, il papà di Lucia che si ammala in fabbrica, il pacifismo di Seybu, l’interventismo socialista del medico, la Grande Guerra. Temi rispettabilissimi e degni di nota, ma il regista insiste ossessivamente sulle pratiche naturiste dei membri della comune, che vagano nudi per gli scogli, improvvisando coreografiche. Troppe, estenuanti.
E l'erotismo? La carne? La materia? Questo film non ha pancia, non trema, è didascalico, spiega e suggerisce risposte, esce fuori solo l’innamoramento di Martone per ciò che fa, per come posiziona la macchina da presa, per come crede di esplorare un grande messaggio, ma che poi non arriva mai. Unico dialogo ben scritto lo scambio di vedute tra Seybu e il dottore sul concetto di rivoluzione, in cui vengono messi alla berlina entrambi gli estremismi: il dogmatismo interventista da una parte e quello isolazionista dall’altro. Il film ha tante piccole rivoluzioni inesplose, l'unica miccia che prende fuoco è la storia personale della pastorella Lucia (Marianna Fontana), che imparara a leggere e a parlare in inglese. Incredibile il suo volto estremamente cinematografico e di un bellezza disarmante. Non si riesce a toglierle gli occhi di dosso. D'effetto la chiosa: un'anfora cade, la guerra è cominciata, simbolo di una scossa tellurica che annuncia una nuova epoca, è l'addio a un equilibrio. E bellissime le parole della mamma di Lucia: "ho sempre saputo com'eri Lucia, ti ho sempre sentita scappare di notte. E anche io avrei voluto essere là, con te".

domenica 16 dicembre 2018

Santiago, Italia, di Nanni Moretti. 2018

«Oggi viaggio per l’Italia e vedo che l’Italia assomiglia sempre di più al Cile, nelle cose peggiori del Cile. Questa cosa di mettersi in questa società di consumismo terribile, dove la persona che hai al fianco non te ne frega niente, se la puoi calpestare la calpesti. Questa è la corsa: l’individualismo».
Cile. Per la prima volta nella storia dell’intera America Latina, l’ingresso nel Palacio de la Moneda è di un presidente marxista. Medico, leader di Unidad Popular, amico e compañero di Pablo Neruda. Quel sogno «umanista e democratico» di Allende che ci ha reso appassionati, come quell' infuocato comizio di Salvador Allende in cui, profeticamente, annuncia che lascerà la Moneda «soltanto crivellato di colpi». Moretti ce lo ricorda, lo fa fra le case e le testimonianze di quei rifugiati che, all’indomani del golpe del ’73, qui trovarono asilo. Diplomatici, registi, artigiani, militari, dottori, asilados sulla propria pelle, che si commuovono e ricostruiscono la loro storia. Vera, di pancia, la dettagliata descrizione dello sforzo di dover scavalcare il muro dell’ambasciata italiana per chiedere asilo politico (per il quale, raccontano, ci si allenava apposta). Tutto condito con freschezza e leggerezza, anche quando una donna ricorda di aver chiesto a uno dei suoi aguzzini di smetterla di strapparle il nastro adesivo incollato sugli occhi, perché «magari mi ammazzano, ma almeno avrò ancora le ciglia!» Santiago, Italia parla di vita, non di morte. parla di dignità, di chi ha capito che doveva ricostruire e non piangersi addosso. Pellicola intelligente, sensibile, di taglio classico ma anche tagliente. Soprattutto quando, nella seconda parte, celebra i migranti cileni accolti come si accoglie l’essere umano, niente di più, contro l’Italia di adesso, quella del “prima noi”, di quelli che vogliono la corsia riservata e si sono messi a fare sistema. Di quelli che twettano e si fanno i selfie. Un ex-militare incarcerato, invoca imparzialità «perché lei non è un giudice né un prete», Moretti, fino a quel momento quasi assente, passa davanti alla macchina da presa e si rivolge all’interprete fuori campo: «Io non sono imparziale, lo traduca». Imparziale certo, ma avrei voluto sentir usare la parola "antifascismo", è per l'antfifascismo che i rifugiati cileni trovarono ospitalità in Italia; è in nome della comune lotta antifascista che tutti i partiti dell’epoca (dai repubblicani ai democristiani ai comunisti, come ricorda uno dei testimoni) decisero di non riconoscere il governo dittatoriale di Pinochet; ed è stato (anche) grazie a una diffusa cultura antifascista che i rifugiati godettero del supporto e della vicinanza della popolazione comune – e non solo nelle regioni “rosse” – nonostante quegli anni fossero tutt’altro che facili, anche nel nostro Paese. E viene nostalgia. Di un tempo che non ricordo, non conosco, in cui si era uniti, solidali. Umani.

venerdì 21 settembre 2018

Dogman di Matteo Garrone. 2018

Il film si apre con le fauci ringhianti di un minaccioso pitbull. Di fronte a lui, un omino che prova ad ammansirlo, “amore, amore”, “bravo, bravo”, per lavarlo e asciugarlo. Intorno, nel quartiere, ComproOro, sale di slot machine, palazzi d’asfalto non rifinito e un perenne clima uggioso . Si stanzia qui il salone per cani Dogman in cui Marcello, tra infissi in alluminio e attrezzi di lavoro un po'alla buona lava, pulisce e sistema cani con un amore infinito. La storia è quella di Pietro De Negri, detto er Canaro, proprietario di un negozio di toelettatura per cani alla Magliana: trent'anni fa esatti, stufo di essere vessato e umiliato da Giancarlo Ricci, lo rinchiuse in una gabbia per cani sul retro del suo negozio e lo uccise senza pietà, amplificando poi il racconto con gli inquirenti. Le indagini tuttavia appurarono che una gran parte di quanto riportato era stato frutto di fantasia e che soprattutto le mutilazioni furono inflitte sul corpo morto. Matteo Garrone ripesca questo delitto, lo studia, suggestionanto anche lui sicuramente dalle personalità forti che ne furono protagoniste, decidendo di soffermarsi principalmente su quanto illusoriamente er Canaro aspirò col suo gesto ad una redenzione personale.
Gli spazi che occupano i due protagonisti sono tali da mettere in evidenza la loro differente conformazione fisica: da pugile e massiccia quella di Simone (Ricci), rachitica e innocua quella di Marcello (er Canaro): in nessun momento si è portati a pensare che Marcello possa essere una minaccia per Simone. Anche perché Marcello è sensibile, mite (non come il vero Canaro), un uomo tranquillo. Ama i cani Marcello, si prende cura di loro con amore. Saranno proprio loro i testimoni involontari della bestialità umana, in silenzio assistono alle torture e diventano così l'emblema dell’insopprimibilità dell’istinto. Ciò che emerge è che Marcello non ama abbastanza se stesso ,non dice mai di "no" a Simone e il corpo esamine che nelle scene finali lui brandisce come un trofeo sulle spalle, lo schiaccerà fino ad opprimerlo. Il suo è uno straziante bisogno di essere amato, di riappropiarsi di quel microcosmo che lo faceva sentire vivo. E difficilmente riuscirete a dimenticare gli occhi del Canaro, una maschera che sembra rubata da un film di Pasolini. Straziante.

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