“Mi accorgevo di avere la pelle d’oca. Senza una ragione, dato che non avevo freddo. Era forse passato un fantasma su di noi? No, era stata la poesia. Una scintilla si era staccata dal poeta e mi aveva dato una scossa gelida. Avevo voglia di piangere; mi sentivo molto strana.Avevo scoperto un nuovo modo di essere felice.” (Sylvia Plath)
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martedì 28 aprile 2015
Le donne vere hanno le curve di Patricia Cardoso. 2002
"Non c'è miglior ornamento addosso, della carne attorno all'osso"
Ragazze di origini messicane che abitano a Los Angeles. Questo il sottotitolo. Lei brillante a scuola, estroversa, simpatica, con geniori ancorati al secolo scorso che cercano in tutti i modi di ostacolare la sua maturazione. Ma Ana di quella tradizione ha solo sentito parlare, non è più la sua. Anche questo film s'inserisce in quel filone di denuncia delle difficoltà che gli immigrati di seconda generazione devono affrontare. E non solo: Ana è una ragazza in carne, con la madre che vorrebbe vederla, invece, magra, sposata e senza tante ambizioni. Ma Ana esce di nascosto con un ragazzo di Beverly Hills, abbandona il lavoro nella sartoria sottocosto della sorella (non prima di aver risvegliato la coscienza sociale delle lavoratrici) e, grazie ai suoi brillanti risultati scolastici nel più esclusivo liceo della città, ottiene l'ammissione alla migliore università del paese.
Nella primissima parte del film, lo spettatore non si rende quasi conto di essere nella elegante e caotica Los Angeles perché ovunque ci sono segni e costumi propri della comunità messicana e solo quando la ragazza approda con l'autobus al liceo che l'insegna di Beverly Hills ripresa in primo piano fa realizzare che l'ambientazione del film è negli Stati Uniti. Così come la Toula de "Il mio grosso grasso matrimonio greco" anche Ana ha un ragazzo yankee che la accetta anche se il suo aspetto non è quello tanto esaltato dai canoni della società attuale e come la Jess di "Sognando Beckham" anche Ana ha un sogno nel cassetto osteggiato dalla sua famiglia: andare all'università e continuare gli amati studi.
E ondeggiando le sue cruve mozzafiato su una strada di New York il film si chiude.
Stucchevole, ma leggero e divertente.
domenica 23 febbraio 2014
12 anni schiavo di Steve McQueen. 2014
Io non voglio sopravvivere. Io voglio vivere.
Seconda metà dell'800. Solomon Northup è un violinista di colore che vive di musica assieme alla moglie e ai due figli nello Stato di New York. Viene rapito e venduto come schiavo da due truffatori. 12 gli anni di schiavitù tra soprusi, violenze e privazioni. Sarà poi un carpentiere (Brad Pitt) dalle idee liberali che conosce durante i lavori nella proprietà di Epps, (Michael Fassbender )a informare le autorità. Lui quindi il personaggio della svolta, il bel cinquantenne Pitt, ma sottotono e poco convincente.
Corpi. potrebbe essere questo il sottotitolo dei film di McQueen, da quelli scheletrici di Hunger, a quelli un po'da pornoattore di Shame fino ad arrivare a quelle spalle aperte degli schiavi di quest'ultimo: Patsey è praticamente un oggetto nelle mani di Edwin, schiavista perfido, laido e cruento. Alcolizzato, "credente" e maschilista. Se Solomon riesce a distinguersi rispetto agli altri schiavi, è grazie al suo alfabetismo. Che lo porterà a scrivere, dopo la liberazione, le sue memorie da cui il film è tratto.Il 2013, l’anno in cui ricorre il 160° anniversario della riacquistata libertà di Northup, è poi sembrato al regista il momento ideale per ricordare la sua storia.
Terzo film di McQueen e 9 le nomination. Logoro il tema del razzismo, ma interessante la scrittura di questo film, Patsey è un personaggio vincente, brividi in ogni suo sguardo. Di classe la fotografia e la celestiale colonna sonora. Tutto elegantissimo. Nella copertina di promozione italiana solo star bianche. Il film parla della segregazione razziale. Un po'incoerente.
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giovedì 10 giugno 2010
Il tempo che ci rimane di Elia Suleiman. 2009

Quattro episodi che raccontano in silenzio la storia della famiglia del regista palestinese Elia Suleiman e di un popolo senza più una terra, dal 1948 (data in cui viene fondata Israele) ad oggi.
Fluire dei pensieri, tempo misto, alla Proust, alla Svevo, non c'è un ordine cronologico, nè un richiamo analogico tra un episodio e l'altro. Inquadrature secche e geometriche, ma ordinate (molto simile a Lourdes di Jessica Hausner se lo avete visto). Ed anche qui, come in Lourdes, c'è largo spazio all'ironia, anche se un po'amara: di fronte ad una casa c’è un enorme carro armato; un ragazzo esce per buttare la spazzatura; il cannone lo segue a pochi centimetri in tutti i suoi minimi spostamenti; ma il ragazzo nemmeno se ne accorge ed intrattiene anche una conversazione al cellulare. Mi è scappato un sorriso: l'emblema di un popolo che convive con l’orrore, tanto da farlo diventare la sua quotidianità. E mi ha commosso ancora di più la scena dei fuochi d’artificio: la madre del protagonista è in veranda, ma non li guarda, anzi volge lo sguardo esattamente dalla parte opposta, seduta nello stesso posto in cui il marito, defunto ormai da anni, si sedeva e toccante ancora di più il momento successivo all’ospedale, in cui la donna tiene costantemente in mano la sua foto: non c'è nulla di cui gioire, colori verso cui volgere lo sguardo. Scena bellissima!
Il resto è tutto sogno e surrealismo (che tanto mi piace): il regista salta con l’asta il muro di Gaza, per un cinema "vero"come non mai, dove sono solo le immagini a comunicare più dei pochissimi e scarni dialoghi presenti nella sceneggiatura, reale proprio perchè del tutto privo di effetti speciali, dove non c'è l'ansia del gesto e della parola, la volontà di una resa mozzafiato e sensazionale, limite della maggiora parte delle pellicole visionabili sul grande schermo.
Il conflitto israelo-palestinese è ricostruito grazie ai diari del padre Fuad, che si unì alla resistenza palestinese, e le corrispondenze della madre, substrato da cui prende vita il film, con un Elia Suleiman presente sulla scena, si autointerpreta da adulto. Un film sulla guerra, che però non la palesa, ma ne suggerisce solo l'idea, ce la sussurra piano all'orecchio, in maniera ovattata, irreale. I soldati sono una sorta di burattini dai movimenti irrigiditi e meccanici, si muovono a marcetta, e sono alquanto ottusi: i sorveglianti notturni ogni sera chiedono a Fuad e all’amico impegnati nella pesca chi sono, cosa fanno e da dove vengono, senza riuscire a intuire che si tratta sempre delle stesse persone. Questa sorta di caricatura è riservata anche agli arabi israeliani, ovvero i palestinesi rimasti in patria e privati della loro nazionalità: il vicino di casa che a giorni alterni minaccia di darsi fuoco col kerosene, la zia Olga che dice di aver visto in tv accanto a importanti personalità politiche i suoi parenti, i genitori preda dei soliti gesti e delle solite frasi: la madre lava meccanicamente i piatti e il padre dopo pranzo guarda la tv, Elia da piccolo è del tutto spento, cammina sempre a testa bassa, non parla, ha sempre la stessa espressione ebete e getta le lenticche della zia nell'immondizia, passando poi il piatto alla madre che prontamente lo lava. Straniamento, alienazione, dei palestinesi privati della loro individualità, personalità, delle loro emozioni, senza più un'anima. Tutto questo è reso magnificamente dalle ineccepibili inquadrature: i protagonisti spesso sono lasciati fuori quadro, quasi non ci fossero, come se l'aspetto umano non fosse il protagonista della storia, ma solo un contorno: quando Fuad innaffia le sue piante in giardino, sono loro le protagoniste, le uniche ad avere mantenuto qualche velleità esistenziale. Nel campo visivo solo gli oggetti, il cibo, la natura, il plaisir de vivre che non appartiene più alla famiglia di Elia.
Con un claustrofobico viaggio in taxi arriverete in Terra Santa, a Nazaret, vi imbatterete in un costruttore d'armi, padre di Elia, volto della dignità, della resistenza all'aggressione sionista, la schiena dritta che non si piegherà neanche con le bastonate, e il viaggio coninuerà attraverso il suo alterego, Elia stesso, attraverserete la sua infanzia, adolescenza e ritornerete poi in patria, con un senso di sconfitta, incredulità, e rassegnazione innanzi a un muro invalicabile. Ma non dimenticate: avete un'asta per saltare, basta solo prendere la rincorsa e spiccare il volo!
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