giovedì 9 gennaio 2014

La conversazione di Francis Ford Coppola. 1974

"Io me ne frego, sono cavoli loro. Voglio solo una bella registrazione chiara"
Sono gli anni della presidenza Nixon, sono gli anni del Watergate. E Coppola confeziona giustamente un film paranoico. Sangue nella toilette. Personaggi freddi, autoconservazione della specie, gloria. San Francisco è deserta, sembra un cimitero, case distrutte o in costruzione, poche presenze umane. Harry, il protagonista, non ama parlare di sè, lo fa solo in sogno, in quella dimensione irreale dove nessuno può nuocergli. Sono le ansie dell'intercettatore, Harry, che non vuole essere intercettato, ma che però vuole salvare il mondo, è un giusto. A causa delle sue intercettazioni, anni fa, una famiglia venne sterminata, non vuole che l'errore si ripeta. Ci riuscirà? Harry sa davvero riconoscere la vittima e il carnefice? La realtà inganna. Una perfezione geometrica, ogni cosa è a suo posto, la regia è maniacale come Harry, un ordine che disorienta e fa paura. Il paese è in crisi di identità e ciò si riflette sui suoi cittadini. L'ineccepibile Coppola lo rende alla perfezione. Questo s'intuisce già dal perfetto incipit: la macchina da presa cala dall’alto, sulla piazza gremita di persone, per poi restringersi sui due protagonisti da intercettare, siamo noi a spiarli. Metafora della potenza del cinema. Harry, come anche il regista, guarda la realtà, ma per decifrarla -non basta osservare- suggerisce la pellicola, allo spettatore che osserva, come al protagonista, viene chiesto uno sforzo in più. Perciò Harry entra in crisi. Lui che sta tra la gente ma che in realtà è sempre solo con se stesso, non sa capire. Infila le chiavi nella toppa senza far rumore, dà lo scarico per non destare sospetti sui suoi rumori. E dopo? Un film sonoro, fatto di voci e interferenze e di Harry che suona il sax in quella casa che sembra un dipinto freddo, senza alcuna parvenza estetica. Ma che colpisce e convince.

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