domenica 31 luglio 2016

Lost in translation, Sofia Coppola. 2003

La maschera malinconica e beffarda di Bill Murray cattura e innamora. Il film, opera seconda di Sofia Coppola, racconta l'incontro di due americani al Park Hyatt Hotel di Tokyo: lui è Bob Harris, un maturo attore hollywoodiano, avviato sul viale del tramonto, che è nella capitale nipponica per girare uno spot pubblicitario e per partecipare ad una trasmissione televisiva.Lei è Charlotte, una giovanissima neolaureata in filosofia, al seguito del marito John, fotografo di moda.
Entrambi si ritrovano spaesati e annoiati negli spazi vuoti dell'hotel, a contatto con una cultura aliena, fatta di soffocante gentilezza e formalismo, karaoke, videogiochi e voglia di emulazione di modelli occidentali un po' triti.Nel silenzio delle notti insonni, i due finiscono per incontrarsi negli ascensori, in piscina, nei corridoi e al bar. La moglie di Bob gli invia in Giappone i campioni della nuova moquette e lo chiama nel cuore della notte, dimentica del fuso orario, per uno scambio di pareri, intervallato dai silenzi e dai ritardi della comunicazione intercontinentale.L'ambientazione in un paese straniero, straniero per tutti, ha del geniale, non c'è lingua che si comprenda, non c'è gesto che risulti familiare a nessuno dei due, il Giappone come specchio della propria vita: solitudine, estraneità, necessità di una guida, di conforto, di affetto. E poi una chiamata, eccomi, eccoti, un saluto, un abbraccio in mezzo alle luci, una voglia di fare l'amore che si farà attendere ancora a lungo e che poi non vedremo. Struggente la scena finale, mi sono commossa: non si percepisce cosa lui le sussurri all'orecchio, ma lei smette di piangere.penso il messaggio della Coppola sia che siamo tutti persi. Perchè abbiamo perso la capacità di tradurre ciò che abbiamo dentro, e le ragioni del cuore, sostiene Pereira

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