“Mi accorgevo di avere la pelle d’oca. Senza una ragione, dato che non avevo freddo. Era forse passato un fantasma su di noi? No, era stata la poesia. Una scintilla si era staccata dal poeta e mi aveva dato una scossa gelida. Avevo voglia di piangere; mi sentivo molto strana.Avevo scoperto un nuovo modo di essere felice.” (Sylvia Plath)
domenica 10 novembre 2019
Gisaengchung di Joon-ho Bong. 2019
La prima parte di Parasite mi ha eccitato: la furbizia proletaria ai danni dei ricchi solletica il mio sottopancia. Dalla seconda parte in poi arriva il capolavoro assoluto.
Patriarcato, arrivismo, competizione e darwinismo sociale, le perversioni sociologiche del capitalismo, in un gioco al massacro senza fine.
Due famiglie: una povera e una ricca, due volti della Corea del Sud come dell’intero occidente capitalista. I poveri sono più furbi, ma hanno un odore che i ricchi imparano a riconoscere fin da piccoli. Il nucleo povero vive alle spalle del ricco - o almeno ci prova- quasi come fossero dei parassiti, degli intrusi (nella locandina, infatti, c’è proprio scritto “cerca l’intruso”). Ma le cose non vanno proprio così, nel senso che ad un certo punto quello che nasce tra le due famiglie sembrerebbe una possibilità di mescolanza vera, ma ciò che renderà le due parti distanti è che i ricchi “non hanno conflitti perché la vita è sempre lineare, dritta, ben stirata” come dice la madre di Ki-woo (il protagonista). Nelle loro mancate interazioni i personaggi diventano quasi dei fantasmi, delle presenze latenti che non riescono a vedersi e a riconoscersi anche quando si trovano a pochi metri di distanza, in uno scantinato, sotto il letto o nel buio di una stanza.
Per parlare fra loro utilizzeranno il linguaggio morse, attraverso l’accendere e lo spegnere delle luci, esattamente come comunicano le famiglie e gli amici divisi tra le trincee di nord e sud Corea.
Questa visione binoculare è rappresentata nella dicotomia dei due mondi che vanno in scena: i ricchi vivono in un gioiello architettonico, nella parte sopraelevata, nella zona ricca, alta della città, mentre quella dei poveri è una specie di baracca, sprofondata sotto il livello della strada. Gli uni hanno di fronte alla sala da pranzo una bella vetrata da dove si vede il loro bel giardino, gli altri una finestra rotta da dove puntualmente tutte le sere osservano un uomo ubriaco che fa la pipì.
Unica la lezione, quella vale per tutti: se percepiamo solo il “disgusto” dell’ombra (riferimento Junghiano alla vita psichica), della parte oscura che tutti noi abbiamo, allora sarà lei che prima o poi, come uno spettro, come un fantasma, irromperà nella nostra vita e si impadronirà di noi in modo violento.
Il male (di vivere) è intriso nell’animo umano e le condizioni economiche sono solo un pretesto per tirare fuori ciò che di malvagio in maniera naturale alberga in noi e scalpita per uscire.
Così vero e autentico da mettere i brividi.
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