“Mi accorgevo di avere la pelle d’oca. Senza una ragione, dato che non avevo freddo. Era forse passato un fantasma su di noi? No, era stata la poesia. Una scintilla si era staccata dal poeta e mi aveva dato una scossa gelida. Avevo voglia di piangere; mi sentivo molto strana.Avevo scoperto un nuovo modo di essere felice.” (Sylvia Plath)
giovedì 10 giugno 2010
Il tempo che ci rimane di Elia Suleiman. 2009
Quattro episodi che raccontano in silenzio la storia della famiglia del regista palestinese Elia Suleiman e di un popolo senza più una terra, dal 1948 (data in cui viene fondata Israele) ad oggi.
Fluire dei pensieri, tempo misto, alla Proust, alla Svevo, non c'è un ordine cronologico, nè un richiamo analogico tra un episodio e l'altro. Inquadrature secche e geometriche, ma ordinate (molto simile a Lourdes di Jessica Hausner se lo avete visto). Ed anche qui, come in Lourdes, c'è largo spazio all'ironia, anche se un po'amara: di fronte ad una casa c’è un enorme carro armato; un ragazzo esce per buttare la spazzatura; il cannone lo segue a pochi centimetri in tutti i suoi minimi spostamenti; ma il ragazzo nemmeno se ne accorge ed intrattiene anche una conversazione al cellulare. Mi è scappato un sorriso: l'emblema di un popolo che convive con l’orrore, tanto da farlo diventare la sua quotidianità. E mi ha commosso ancora di più la scena dei fuochi d’artificio: la madre del protagonista è in veranda, ma non li guarda, anzi volge lo sguardo esattamente dalla parte opposta, seduta nello stesso posto in cui il marito, defunto ormai da anni, si sedeva e toccante ancora di più il momento successivo all’ospedale, in cui la donna tiene costantemente in mano la sua foto: non c'è nulla di cui gioire, colori verso cui volgere lo sguardo. Scena bellissima!
Il resto è tutto sogno e surrealismo (che tanto mi piace): il regista salta con l’asta il muro di Gaza, per un cinema "vero"come non mai, dove sono solo le immagini a comunicare più dei pochissimi e scarni dialoghi presenti nella sceneggiatura, reale proprio perchè del tutto privo di effetti speciali, dove non c'è l'ansia del gesto e della parola, la volontà di una resa mozzafiato e sensazionale, limite della maggiora parte delle pellicole visionabili sul grande schermo.
Il conflitto israelo-palestinese è ricostruito grazie ai diari del padre Fuad, che si unì alla resistenza palestinese, e le corrispondenze della madre, substrato da cui prende vita il film, con un Elia Suleiman presente sulla scena, si autointerpreta da adulto. Un film sulla guerra, che però non la palesa, ma ne suggerisce solo l'idea, ce la sussurra piano all'orecchio, in maniera ovattata, irreale. I soldati sono una sorta di burattini dai movimenti irrigiditi e meccanici, si muovono a marcetta, e sono alquanto ottusi: i sorveglianti notturni ogni sera chiedono a Fuad e all’amico impegnati nella pesca chi sono, cosa fanno e da dove vengono, senza riuscire a intuire che si tratta sempre delle stesse persone. Questa sorta di caricatura è riservata anche agli arabi israeliani, ovvero i palestinesi rimasti in patria e privati della loro nazionalità: il vicino di casa che a giorni alterni minaccia di darsi fuoco col kerosene, la zia Olga che dice di aver visto in tv accanto a importanti personalità politiche i suoi parenti, i genitori preda dei soliti gesti e delle solite frasi: la madre lava meccanicamente i piatti e il padre dopo pranzo guarda la tv, Elia da piccolo è del tutto spento, cammina sempre a testa bassa, non parla, ha sempre la stessa espressione ebete e getta le lenticche della zia nell'immondizia, passando poi il piatto alla madre che prontamente lo lava. Straniamento, alienazione, dei palestinesi privati della loro individualità, personalità, delle loro emozioni, senza più un'anima. Tutto questo è reso magnificamente dalle ineccepibili inquadrature: i protagonisti spesso sono lasciati fuori quadro, quasi non ci fossero, come se l'aspetto umano non fosse il protagonista della storia, ma solo un contorno: quando Fuad innaffia le sue piante in giardino, sono loro le protagoniste, le uniche ad avere mantenuto qualche velleità esistenziale. Nel campo visivo solo gli oggetti, il cibo, la natura, il plaisir de vivre che non appartiene più alla famiglia di Elia.
Con un claustrofobico viaggio in taxi arriverete in Terra Santa, a Nazaret, vi imbatterete in un costruttore d'armi, padre di Elia, volto della dignità, della resistenza all'aggressione sionista, la schiena dritta che non si piegherà neanche con le bastonate, e il viaggio coninuerà attraverso il suo alterego, Elia stesso, attraverserete la sua infanzia, adolescenza e ritornerete poi in patria, con un senso di sconfitta, incredulità, e rassegnazione innanzi a un muro invalicabile. Ma non dimenticate: avete un'asta per saltare, basta solo prendere la rincorsa e spiccare il volo!
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grazie per tutti!!!
RispondiEliminabacci
mi piace molto la publicazione!!!
:)