“Mi accorgevo di avere la pelle d’oca. Senza una ragione, dato che non avevo freddo. Era forse passato un fantasma su di noi? No, era stata la poesia. Una scintilla si era staccata dal poeta e mi aveva dato una scossa gelida. Avevo voglia di piangere; mi sentivo molto strana.Avevo scoperto un nuovo modo di essere felice.” (Sylvia Plath)
lunedì 6 marzo 2017
La sposa promessa di Rama Burshtein. 2012
Un film israeliano, ma soprattutto ebreo, ebreo ortodosso, fino al midollo, con una regista americana, ma che ha scelto la vita chassidica di una comunità ultra-ortodossa di Tel Aviv.
Shira ha 18 anni e un fidanzato designato, perchè trovare marito è l’obiettivo più importante per una donna, nella comunità Chassidim di Tel Aviv, dove vive. E sua madre glielo mostra a distanza, al supermercato, a designare quanto il gesto sia, in effetti, una sorta di compra-vendita da mercato. Ma durante la festività ebraica del Purim, sua sorella Esther, incinta di nove mesi, ha un malore e muore dopo il parto. Così viene proposto a Shira di prendere come marito il cognato. Senso del dovere, c'è un neonato da crescere. E l'amore?
Forse Shira comincerà a provare qualcosa per il cognato, ma volutamente la regista lascia questo mistero: non sapremo mai fino in fondo quanta parte – nelle decisioni individuali – abbia la coercizione degli altri e quanto sia frutto del libero arbitrio del sentire, del pensare quindi dello scegliere.
C'è qualcosa di poco coinvolgente, emozioni troppo contenute per i miei gusti, tranne quando la giovane protagonista, nel momento in cui la discussione si fa sempre più intima e vicina, richiama il cognato/possibile marito al fatto che si stanno avvicinando troppo con il corpo, che l’accorciarsi della distanza in quel momento non aumenterebbe la vicinanza e l’intimità, ma confonderebbe e impedirebbe la comprensione con un inutile scorciatoia.
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