giovedì 20 settembre 2018

Lazzaro felice di Alice Rohrwacher. 2018

Il cinema di Alice Rohrwacher ipnotizza come lei, è libero, surreale, fresco. Pasoliniano. Lazzaro è il Lazzaro dei Vangeli, non solo colui che risorge cioè, ma colui che Dio piange morto e per questo risorge. Il prescelto, il meritevole, la scelta del nome non è casuale. In "Lazzaro felice" gli occhi della regista sono rivolti verso gli ultimi, tutti attori non protagonisti (scelte difficili, ma spesso vincenti). Schiavi, nullatenenti ma con la gioia di vivere, perchè per dirla alla Rousseau è la natura ad essere il modello ideale, la disuguaglianza fu introdotta dalla proprietà privata. Mezzadri quando la mezzadria era stata già bandita per legge, (si faticherà all'inizio, infatti, a dare una collocazione spazio-temporale) servi della marchesa Alfonsina, interpratata da Nicoletta Braschi. Lazzaro (il giovane protagonista) intreccerà un'amicizia vera e sincera proprio con il figlio della marchesa, mettendo in evidenza quanto esistano due medioevo, uno storico, ma anche e soprattutto uno umano: quello di Tancredi (figlio della marchesa) e della società che "libera" i mezzadri.Quello in cui la democrazia trae in salvo gli schiavi per gettarli poi, soli, in un sistema comunque chiuso, e classista.
Il messaggio- devo ammetterlo- è un po'banale, così come anche la scrittura che a tratti regge poco: come si può negli anni Novanta, in piena tecnologia credere che questi contadini non si ribellino e non abbandonino il campo di lavoro? E poi perchè Lazzaro, il buono, è un po' bonaccione? Parla coi lupi, risorge, è una figura un po'messianica, aiuta tutti, non conosce malizia e male. Ma la bontà, per essere tale, ha bisogno davvero di essere acritica e inconsapevole? La ribellione, uno spirito critico non possono appartenere anche ad un "buono"? Il vento è un elemento sonoro ricorrente nel film, magico, da favola. La Rohrwacher non mi convince mai del tutto, però -cazzo- se ha stile.

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